Il suo “Il mondo alla fine del mondo” è stato indicato, tra gli altri, come uno dei romanzi da portare in spiaggia e leggere sotto l’ombrellone dagli utenti di twitter, che si sono sbizzarriti a dispensare consigli e offrire suggerimenti letterari per l’estate 2013 con l’hashtag #viaggiolibro. Un modo economico – vista la crisi – per viaggiare low cost attraverso la lettura. Chissà se Luis Sepulveda, che di fatto è stato un grande viaggiatore, seppure in qualche modo costretto dagli eventi che hanno incrociato la sua vita fuori dal comune, avrebbe apprezzato.
Figlio (per metà) di anarchici, la sua storia inizia il 4 ottobre 1949 in una camera d’albergo a Ovalle, in Cile. Lì i genitori si erano nascosti, messi in fuga da una denuncia che il nonno materno aveva emesso nei confronti del genero, causa le sue convinzioni politiche. Nato come un Gesù moderno, il piccolo Luis trascorre i primi anni di vita a Valparaìso, sotto la guida del nonno materno, Gerardo Sepulveda Tapia, meglio conosciuto come Ricardo Blanco, anarchico andaluso costretto a emigrare in America Latina, e dei grandi avventurieri della letteratura, Salgari, Conrad, Melville.
Il talento e la passione per la scrittura non tardano a emergere: i suoi racconti erotici, fatti circolare clandestinamente, diventano famosi tra gli studenti del liceo di Santiago, e fruttano al giovane Sepulveda anche un certo guadagno economico. La gloria arriva qualche anno dopo, con tutt’altro genere di scritti, quelli a sfondo politico che diventano famosi nelle riunioni sindacali, negli scioperi e nelle manifestazioni della Gioventù Comunista Cilena, nella quale Sepulveda inizia a militare nel 1964. Cinque anni dopo arriva anche un premio letterario, il Casa de Las Américas, assegnato alla raccolta di racconti “Crónicas de Pedro Nadie”.
Snobbato dagli scrittori “impegnati”, negli anni successivi si appassiona al teatro, vincendo una borsa di studio in drammaturgia della durata di 5 anni per l’università di Lomonosov, a Mosca. Ma nella capitale sovietica il ribelle Luis riesce a restare solo pochi mesi, prima di essere espulso per “atteggiamenti non conformi alla morale proletaria”: giusto il tempo di intrattenere un affaire amoroso con la moglie del decano dell’istituto di ricerche marxiste.
Il rientro in Cile è altrettanto burrascoso: espulso anche dalla Gioventù Comunista e ormai in rotta col padre, Luis Sepulveda si trasferisce in Bolivia per sposare la causa della liberazione nazionale; milita nell’Ejército de Liberaciòn Nacional, poi rientra in Cile per conseguire il diploma teatrale. Continua a scrivere racconti e a interessarsi di drammaturgia, poi si iscrive al partito socialista, dove entra a far parte della guardia personale di Salvador Allende. Mancano pochi anni al golpe di Pinochet, quell’11 settembre 1973 cambierà la storia del paese delle Ande. Quel giorno, Sepulveda si trova nel Palazzo Presidenziale: assiste all’omicidio di Allende, viene catturato e torturato per sette mesi, rinchiuso in uno stanzino di 50 centimetri per un metro e mezzo di altezza. Molti uomini non sarebbero sopravvissuti, ma Luis Sepulveda sì. Anzi, mi piace pensare che proprio in quel tugurio, privato di ogni più essenziale condizione di umanità, Sepulveda già pensasse al suo vecchio, quello che leggeva romanzi d’amore (il romanzo fu in realtà ispirato dalla sua partecipazione a una spedizione in Amazzonia, organizzata dall’Unesco per studiare l’impatto della civiltà sugli indios Shuar), o alla gabbianella che non sapeva volare, e al gatto che le avrebbe insegnato quell’abilità a lui proibita, l’arte di lib(e)rarsi in volo, verso la vita.
Scarcerato solo grazie alle pressioni di Amnesty International sul regime militare di Pinochet, Sepulveda torna a Valparaìso, piegato ma non spezzato. In segno di estrema ribellione, di tenacia, di rivalsa, si mette a organizzare spettacoli clandestini ispirati alle sue convinzioni politiche. Viene arrestato di nuovo e condannato all’ergastolo, che solo una nuova intercessione di Amnesty International riesce a commutare in un esilio di otto anni. Ma, invece di andare in Svezia dove lo attende una cattedra all’università di Uppsala, preferisce vagare per l’America Latina in subbuglio, attraversando Brasile, Paraguay, Ecuador, per poi giungere in Nicaragua, per apportare il suo contributo alla rivoluzione guidata dalla Brigata di Simon Bolivar, che gli vale la cittadinanza nicaraguense. A vittoria ottenuta Sepulveda approda finalmente in Europa, stabilendosi ad Amburgo, come se il suo compito in America Latina fosse finito.
Quello che gli resta del suo passato burrascoso è la passione per i viaggi d’avventura, e naturalmente per la scrittura. Diventa corrispondente per la stampa tedesca sulle imprese di Greenpeace in tutto il mondo, vive a Parigi (ottenendo anche la cittadinanza francese), infine si trasferisce in Spagna, nelle Asturie, dove tuttora vive con la compagna Carmen, i figli, e il cane Zarko.
Intanto trova anche il tempo per scrivere: il suo primo romanzo, “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”, apparso nel 1989, diventa subito un best-seller. Immediato gli fa eco “Il mondo alla fine del mondo”, edito sempre nel 1989, poi Sepulveda riappare sulla scena letteraria dopo una pausa di cinque anni, nel 1994, con “Un nome da torero”, seguito da numerosi altri scritti, figli di un periodo estremamente fecondo che vede il suo apice nella “Storia di una gabbianella e di un gatto che le insegnò a volare”, decisamente il suo romanzo più famoso, da molti snobbato perché considerato smielato e banale, troppo asciutto ed essenziale da un punto di vista stilistico, come anche numerosi altri suoi scritti.
Sarà vero? Non ci resta che scegliere un romanzo di Sepulveda e leggerlo, perché no, anche sotto l’ombrellone. E, magari, dopo aver conosciuto la vita dell’autore, la lettura regalerà nuovi spiragli di comprensione, farà fiorire nuove e più dense immagini, offrirà spunti di riflessione più profondi e toccanti. Ma, per favore, non chiamatelo “scrittore da spiaggia”.