L’altro giorno, passando davanti alla Feltrinelli, ho sentito una spinta a irrefrenabile a entrare. Un vortice di aria calda e secca mi attirava all’interno, una spirale di parole bisbigliate distrattamente tra uno scaffale e l’altro mi ha risucchiato in libreria, per me luogo di sacra perdizione. Sapevo già dove andare. Come un canto di sirena, la voce che mi chiamava l’ho riconosciuta, passo dopo passo, tirandola fuori dalla babele di voci indistinte e familiari degli altri libri. Era la voce di Vincenzo Malinconico, o, se preferite, quella di Diego De Silva.
Sono contrario alle emozioni, ultimo romanzo dello scrittore napoletano che giunge a conferma del successo di uno dei personaggi forse più indovinati della letteratura italiana contemporanea, l’avvocato scombinato Vincenzo Malinconico, è apparso da poco in libreria. Lo sapevo, e mi ero ripromessa di leggerlo al più presto. Poi, come sempre quando ci succedono cose belle, il momento è arrivato da sé ed era quello giusto. Non ho potuto fare altro che assecondare la corrente e cogliere l’attimo: sull’onda dell’ispirazione, ho comprato anche Mia suocera beve, secondo capitolo della saga targata Malinconico. Non mi succede con tutti gli scrittori. Perché? È semplice: non tutti gli scrittori sono uguali. Scontato, direte voi. Si, ma quello che voglio dire è che ci sono storie e storie, e ci sono scrittori e scrittori: con alcuni si vivono passioni intense, fuochi di paglia mirabolanti ma destinati inevitabilmente a spegnersi lasciando solo un bel ricordo; altri ritornano periodicamente, come quegli amici che non vediamo mai e poi incontriamo un giorno, per caso, e ci sembra di non esserci mai lasciati. Altri ancora sono inevitabilmente deludenti. Altri si sopportano solo per dovere. E poi ci sono gli scrittori che mancano. Diego De Silva è uno scrittore che (mi) manca.
Sarà la sua “napoletanità” raffinata e tagliente, che spurga a tratti dalla sua prosa asciutta e impeccabile, con qualche parola dialettale, qualche rumore o qualche odore sporco, qualche immagine raccolta nei vicoli bui senza nome che solo un napoletano può riconoscere come un segno di appartenenza; sarà quella leggerezza, anch’essa tipicamente napoletana, quell’astensione dal giudizio con cui riesce a raccontare anche decadenza e squallore, morte e depressione, specchi riflessi di amore e vita, di cui sono parti integranti. Sarà quell’insoddisfazione, propellente della riflessione, che lascia dopo averlo letto, forse per quel suo modo un po’ brusco, quasi affrettato, di chiudere il racconto così come l’ha cominciato, inaspettatamente, senza segnaletica. Sarà forse tutto questo, unito a una sublime capacità di intreccio che rende giustizia all’ideale della narrazione, a fare di Diego De Silva uno scrittore che non si dimentica. Entra sottopelle, lascia un segno: la nostalgia è in agguato subito dopo aver chiuso la copertina sull’ultima pagina, sull’ultima riga. E già sai che non sarà un addio, ma un arrivederci.
Avvocato prima che scrittore, napoletano di nascita e salernitano di adozione, Diego De Silva vive la scrittura come una scelta, non consapevole, ma quasi obbligata da una necessità interiore.
Ho un rapporto ossessivo e frenetico con le parole. Faccio lo scrittore perché non so fare altro. Può sembrare una piaggeria, ma non lo è: io so soltanto scrivere. E uno scrittore non ha tutta questa libertà come comunemente si pensa, ad esempio la libertà di fare una passeggiata. Se uno scrittore ha un’idea in testa, non è libero finché non le ha dato forma. Il mio è un esercizio nevrotico della scrittura, una vera e propria ossessione.
La scrittura è anche una missione sociale: quella di forgiare le menti, spingere alla riflessione (memorabile la sua definizione di “camorra sostenibile”), guadagnarsi un ruolo attivo nella società, uno spazio per pensare alla vita in una vita che è sempre più ingarbugliata e frenetica. Una missione che gli riesce molto bene, sia nelle vesti di scrittore “noir” di – uno su tutti – Certi bambini, sia in quelle di comico quasi parossistico, come si è mostrato nella sua ultima virata stilistica, che ha visto l’incedere della sua scrittura, sempre molto secco e distaccato, snellirsi grazie a una spolverata di amara comicità che tipizza il carattere del personaggio di Malinconico: un “giovane Holden napoletano”, un libero professionista affannato, un uomo outlet, fuori moda e fuori tempo, che si affanna a correre dietro una vita che scorre troppo veloce per farsi afferrare. C’è molto di Diego De Silva in Vincenzo Malinconico: un quarantenne “semi-disoccupato, semi-divorziato, semi-felice”, che più si arrabatta a stare al passo con la vita più si rende conto che la vita non va rincorsa, ma vissuta. E allora cosa fa Vincenzo Malinconico? Niente; semplicemente, si ferma, e aspetta che sia la vita a raggiungere lui. E intanto si racconta, facendoci ridere di un riso sarcastico più che liberatorio, con una comicità agrodolce che discende direttamente dall’umorismo pirandelliano, che dietro l’apparente gaiezza del ridicolo cela un’amarezza essenziale, il nocciolo duro di quella melanconia che ci prende quando iniziamo a meditare sul burlesco.
Far ridere è una cosa difficile.
Ma ridere, e ridere di se stessi, lo è ancora di più. Diego De Silva ci riesce: ride di se stesso e fa ridere noi, ci infonde quella leggerezza e quella fiducia nell’esistenza che spesso perdiamo di vista. Forse più di tutto è proprio questa sensazione che riesce a trasmettere a mancare, a lettura finita; e a fare di Diego De Silva uno scrittore che manca.