I suoi padri letterari? Calvino e Garcìa Màrquez. La sua passione? Le short stories (in America è conosciuta ai più per essere l’autrice de “The Girl in the Flammable Skirt”). Le sue fonti d’ispirazione? La psicologia (lavoro del padre) e la danza (lavoro della madre). Di chi sto parlando? Di Aimee Bender, autrice/insegnante californiana ancora poco conosciuta in Italia, e dotata di una straordinaria capacità di comunicazione. Sarà la formazione da insegnante, sarà. Ma i suoi lavori ad oggi la rendono una delle penne più “delicate” che abbia mai letto.
Scrittrice surreale e provocatoria, se non tremendamente intensa, la Bender ritorna sul mercato italiano con una piccola fiaba dai contorni malinconici. “L’inconfondibile tristezza della torta al limone” (che ho personalmente scelto solo per il titolo!) è una chicca da tenere sulle mensole della propria libreria e da consultare almeno 2-3 volte l’anno. I personaggi son pochi, la storia è semplice e il finale… beh quello lo lascio a voi. Ma l’insieme di questi scarni elementi, privi di abbellimenti da romanzo, crea un racconto realisticamente magico o magicamente realistico, non so.
È la vigilia del suo compleanno e Rose Edelstein, timida bambina in procinto di compiere nove anni, scopre improvvisamente di aver ricevuto un dono assai bizzarro. Non è un regalo di compleanno, ma una particolare forma di empatia che si esprime attraverso il cibo. Qualsiasi esso sia. Infatti la dolce Rose riesce a carpire le emozioni delle persone attraverso i cibi che preparano. Al ritorno da scuola, un pomeriggio, ad attenderla c’è la madre che le ha preparato con amore una torta al limone. Nell’assaggiarla ciò che Rose sente però non è ciò che si aspettava:
«A dirla tutta: il pezzetto che avevo mangiato era squisito. Leggerezza dell’impasto al limone cotto al forno, avviluppato da freschi riccioli di zucchero scuro scuro.
Ma il giorno fuori andava rabbuiandosi, e mentre finivo quel primo assaggio, mentre quella prima impressione svaniva, mi sentii dentro un’impercettibile mutamento, una reazione inaspettata. Come se un sensore, fino ad allora sepolto in profondità dentro di me, allargasse il suo raggio d’azione e cominciasse a scrutare tutt’attorno, allertando la mia bocca a qualcosa di nuovo. Perché la bontà degli ingredienti – la cioccolata sopraffina, i limoni freschissimi – sembrava una coltre sopra qualcosa di più grande e di più oscuro, e il sapore di quello che c’era sotto cominciava ad affiorare nel boccone. Certo, riuscivo ad assaporare la cioccolata, ma a folate e di traccia in traccia, in un dispiegarsi o in un aprirsi, sembrava che la mia bocca si stesse anche riempiendo con il sapore della piccolezza, la sensazione del rattrappirsi, dell’inquietudine, assaporando una distanza che non so come sapevo collegata a mia madre, come se sentissi un sapore pregno dei suoi pensieri, una spirale, come se quasi potessi provare il sapore della tensione della sua mascella che le aveva provocato il mal di testa, il che significava che aveva dovuto prendere un certo numero di aspirine, una riga punteggiata di aspirine messe in fila sul comodino, come puntini di sospensione dopo la sua frase: vado a buttarmi sul letto per un po’…»
Al suo risveglio Rose scopre di possedere questa abilità, questo triste potere. Inizialmente scioccata, a causa delle scoperte che fa quotidianamente e che scardinano ogni certezza legata alla sua apparente idilliaca famiglia, lentamente si adatta a questa nuova vita, imparando a confrontarsi con la realtà dei sentimenti e le conseguenze che da essi derivano.
Capace di far riflettere, commuovere, sorridere questo libro è un piccolo gioiello e come tale va trattato: prestatelo o regalatelo alle persone a cui volete bene e anche a quelle che vi sembrano nascondere la loro vera natura per paura di essere giudicate. L’empatia si può instaurare e alimentare anche grazie alle buone letture