Ho cercato sempre di essere vero, senza essere né realista, né idealista, né romantico, né altro, e se ho sbagliato, o non sono riuscito, mio danno, ma ne ho avuto sempre l’intenzione.
Giovanni Verga così scriveva – era il 1875 – in una lettera a Felice Cameroni, critico letterario e giornalista. Erano gli anni di quella che molti studiosi definiscono come la “svolta verista”, iniziata con Nedda (1874) e giunta – a singhiozzo – alla sua massima e più fulgida espressione con la stesura de I Malavoglia (1881) e Mastro Don Gesualdo (1888), primi due atti di quella che avrebbe dovuto essere una rassegna completa, il leggendario “Ciclo dei Vinti”, delle sconfitte subite dall’uomo a ogni gradino della scala sociale.
L’apparente ossimoro di Positivismo e Pessimismo è centrale nella poetica verghiana: in tutta l’opera dell’autore oggi considerato uno dei più grandi romanzieri italiani, aleggia una profonda sfiducia nella possibilità da parte dell’uomo di cambiare la realtà preordinata, e la ferma convinzione che tale tentativo conduca inevitabilmente alla disfatta. L’allora recente concetto darwinista di selezione naturale trova nella produzione verghiana un’applicazione sociale: la società è intesa, hobbesianamente, come una giungla di malessere e solitudine, popolata di falsi valori cui si può opporre solo – unica scelta saggia – una docile rassegnazione alla propria impotenza nei confronti dell’ingranaggio sociale che, seppur costruito dagli uomini, sembra agire in virtù di una forza propria, cieca e spietata, che travolge i suoi stessi creatori nel suo ottuso cammino verso l’ autoconservazione.
Nato in un luogo e un tempo imprecisati, tra la fine d’Agosto e l’inizio di Settembre in una contrada sperduta della campagna catanese – probabilmente Vizzini, ma la polemica su luogo e data di nascita di Giovanni Verga è tuttora aperta – , in una Sicilia conservatrice e contadina improvvisamente squassata da mutamenti politico-sociali che infine daranno alla luce due acerbi frutti, l’Italia unita e la nuova borghesia, la personalità letteraria di Giovanni Verga risentì inevitabilmente dell’influenza di tali stravolgimenti. Vergognoso delle proprie origini “villane” e formatosi quasi da autodidatta con letture eccentriche per l’epoca, preferendo i contemporanei francesi – tra cui Dumas e Zola, di cui subì l’influsso naturalista – ai classici italiani, tutta la vita di Verga mi appare, metaforicamente parlando, come un costante, estremo tentativo di assurgere egli stesso a una condizione sociale, morale e psichica più elevata: l’abbandono della sua Sicilia, terra di radici, cui tuttavia tornò costantemente con l’immaginazione facendone lo sfondo dei suoi capolavori letterari, in favore delle più modaiole metropoli di Firenze prima e Milano poi; il rifiuto della tradizione romantica e, in generale, di quella letteraria italiana, anche da un punto di vista linguistico; la scelta di abbracciare un Verismo di “importazione”, che presuppone la tensione costante verso l’irraggiungibile (?) obiettivo della assoluta imparzialità dell’autore, osservatore talmente sopra le parti da non poter emettere giudizi: tutti questi indizi mi scolpiscono nella mente l’amaro ritratto di un Verga schivo e profondamente insoddisfatto, animato dalla spinta perpetua verso una perfezione che si allontana di più a ogni passo.
Giovanni Verga è ‘Ntoni dei Malavoglia, è il mastro Don Gesualdo che tenta di elevare la sua condizione sociale; c’è molto di autobiografico nei personaggi dell’universo verghiano, odiati e amati allo stesso tempo dal loro creatore in quanto rappresentanti di ciò che egli aborre più profondamente – la stupidità dell’uomo che crede di poter cambiare la sua condizione di miseria – e che tuttavia riconosce in un certo qual modo appartenergli.
Come i suoi personaggi, Verga tenta di sovrastare la massa e uscire dalla miseria, ma, così facendo, si affossa. Caduto in depressione alla morte della madre (1878), la sua crisi psicologica durerà, anche a causa dei problemi finanziari, oltre che dell’andamento altalenante dei favori della critica, per quasi dieci anni, e probabilmente lo accompagnerà oscuramente fino alla sofferta decisione (inizi del Novecento) di abbandonare la letteratura per dedicarsi alle sue terre, mentre ancora coltiva l’irrealizzato sogno de La Duchessa di Leyra, incompiuto terzo atto del Ciclo dei Vinti.
Giovanni Verga si sentiva un Vinto. Un uomo sconfitto da una società in evoluzione troppo rapida, incomprensibile, cangiante e invivibile, che tuttavia non può fare a meno di provare a restare sulla giostra, a lottare aggrappandosi all’unico appiglio in grado di tenerlo a galla: un’obiettività lucida e distaccata, talvolta quasi disincantata.
Di qui la scelta di un Verismo quasi naturalista e il conseguente interesse per le tematiche sociali, soprattutto per le condizioni di vita dei contadini siciliani; di qui la ferma critica alla società contemporanea e l’impareggiabile capacità di scattare delle istantanee di realtà in cui ogni dettaglio, ogni parola, ogni atmosfera, la narrazione stessa, sembrano esistere autonomamente dalla figura del narratore, grande assente eclissato dietro la pretesa dell’assoluta fedeltà al Vero e alla realtà.
Il suo tempo non ha reso giustizia a Giovanni Verga: molti dei suoi lavori furono flop totali, aspramente criticati. La sua epoca lo vinse. Eppure, a distanza di oltre un secolo, una nuova epoca lo ha rivalutato, trasformandolo da Vinto a Vincitore. Quello che Verga riteneva impossibile, rovesciare la propria sorte, il progresso sociale lo ha reso possibile. Oggi non c’è liceo in cui non si legga almeno un passo degli scritti di Verga. Peccato che lui non possa godersi questa fama immortale.