Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: “E dei caduti cosa facciamo?, perché sono morti?” Io non saprei cosa rispondere. Non adesso almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero. Cesare Pavese, La casa in collina
Pubblicato nel 1949, La casa in collina di Cesare Pavese è il romanzo della solitudine individuale di fronte all’impegno civile e storico, metafora perfetta dell’intellettuale inquieto che orgogliosamente vuole affermarsi, ma che deve fare i conti con la sua incapacità di adattarsi alla vita.
L’opera si apre con una Torino scossa dai bombardamenti. La collina che fa da sfondo alla storia è il tipico rilievo montuoso poco elevato, subito a ridosso del Po. Gli anni sono quelli dell’occupazione tedesca, e per gli italiani sta per finire il secondo conflitto mondiale. Corrado, il protagonista, è un professore che di sera si rifugia su questo promontorio per scappare dalle bombe e le retate. Alter ego di Cesare, egli vive il dramma del conflitto e la sua violenza. Desidera aprirsi agli altri, oppure partecipare alla lotta clandestina, ma il suo animo è continuamente perplesso e bloccato dalla paura di comprendere, che lo costringe a mettere in discussione il significato stesso dell’esistenza, della sua vita e dell’indifferenza che nutre nei confronti della militanza politica.
Sulla collina, Corrado incontra Cate, una ragazza madre con la quale ha avuto una relazione anni prima, e che ora ha un figlio senza padre, Dino, che potrebbe essere suo. La giovane donna è un mondo che Corrado non conosce. È di periferia, generosa, energica e temeraria, pronta all’amore e disposta a difenderlo gelosamente, ed ha scelto di lottare con una banda partigiana. Corrado non trova alcun rimedio ai propri dubbi, e sceglie la fuga dalla realtà e da sé stesso. Tormentato e con la paura di non poter recuperare un’innocenza perduta, fa ritorno sulle Langhe con Dino in cerca di un rifugio sicuro, fino a quando la neve invernale non permetterà alle bande partigiane di avanzare.
Scritto con un’eleganza stilistica che ha pochi eguali nel panorama della cosiddetta “letteratura civile”, crudo e poetico al contempo, asciutto e senza alcun compiacimento, nel romanzo di Pavese la Resistenza s’intravede attraverso una cronaca della quotidianità. La guerra, il sangue, la violenza e la morte sembrano essere legati a una sottile linea che non li separa da un’altra forma di resistenza, quella della fatica di tutti i giorni, tesa continuamente verso una riscossa esistenziale, più che sociale. L’eroismo è quasi necessario per un uomo, chiunque esso sia, e non più ornamento di un esasperante orgoglio patriottico.
La collina si eleva non solo a luogo mitico, quello di un eterno ritorno o di una favolistica prima volta, ma a microcosmo narrativo di cose essenziali e durature. Resta irrimediabilmente lo scenario della sua personale fuga, un luogo, seppur familiare, di rimembranze oniriche, simile a un sogno, da cui riaffiorano e prendono vita le insicurezze dell’autore. Luogo in cui la Storia sembra assente, prima che la realtà irrompa drammaticamente. Solo dopo aver assistito alle rappresaglie dei tedeschi che Corrado riesce a dare un reale valore all’intera vicenda, soprattutto quando osserva sulla neve i corpi dei cadaveri sconosciuti:
Ci si sente umiliati – dice il protagonista – perché si capisce che al posto del morto potremmo esserci noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e glie ne chiede ragione.
Il romanzo di Pavese è la lucida coscienza di un uomo in cerca di un senso alla propria esistenza, il decadimento morale di un’epoca, una profonda lezione morale avulsa da ogni stucchevole retorica. La collina diventa la pacificazione delle proprie ansie, la sofferta conciliazione tra Mito e Storia. Una tregua alla sua dolente e personale ricerca della verità.