La vita di Carlo Porta è quella di un classico borghese milanese, impiegato e rappresentante dell’amministrazione statale, che passa attraverso i tortuosi mutamenti storici e politici che hanno luogo in Italia tra la fine del Settecento e il primo quarto dell’Ottocento; ma a farlo entrare di diritto nella storia della letteratura italiana c’è la sua vena poetica, che Porta esprime completamente per mezzo del dialetto della sua città, Milano.
Questa scelta, rivendicata con orgoglio e fortemente rappresentativa, le sue tematiche e il suo substrato ideologico trovano un posto abbastanza singolare nel complesso affresco del Romanticismo italiano, di cui il Porta è considerato rappresentante: lontano dal gusto dell’eroico e del tragico, poco affascinato dal mondo medioevale, per lui Romanticismo significa soprattutto difesa della spontaneità della poesia, della comunicatività popolare del dialetto, dell’aderenza al mondo reale.
È il 1817 quando esce in stampa la prima raccolta di poesie di Carlo Porta, una cinquantina di componimenti messi insieme sotto il titolo di Poesie; nel dicembre del 1821 – undici mesi dopo la morte dell’autore – esce un’edizione postuma delle Poesie, curata dal Grossi, e altri componimenti inediti furono pubblicati a Lugano nel 1826, incontrando subito una grande fortuna presso gli intellettuali lombardi.
Tante tematiche, tanti luoghi e tante figure popolano l’immaginario delle poesie del Porta: ma in particolare l’autore fa rivivere trai suoi versi la vita quotidiana dei caseggiati popolari urbani, i balli popolari, i mercati e le osterie, la lotta quanto mai antica tra i deboli – che soccombono – e i forti vittoriosi. Testi narrativi, come On miracol (la storia di un peccatore fatto resuscitare perchè possa confessarsi) o Fra Diodatt, si alternano a sonetti brevi, mentre un vero e proprio respiro epico raggiungono certe composizioni, come il Lament del Marchionn di gamb avert, mille versi che raccontano la sotria di un povero ciabattino sciancato che si innamora della terribile Tettone.
Particolarmente vivace, e da non trascurare, la rappresentazione che il Porta fa del mondo clericale e bigotto: qui si muovono uomini di chiesa, preti e alti prelati, nobili e aristocratici che, ottusamente convinti delle loro ragioni, utilizzano di fatto la religione come strumento di ordine, privilegio e ascesa sociale.
Ora registrazione diretta della voce popolare, ora strumento di conversazione colta, l’onnipresente dialetto milanese è soprattutto una straordinaria trovata poetica, la scelta – rivendicata con orgoglio – di raccontare il mondo della Restaurazione da una prospettiva tutta particolare.