[foto: Ba-ra-kei “Ordalia delle rose”, 1961-62 di Eikoh Hosoe]
Personalità de sempre considerata sui generis dalla critica e dal pubblico in generale, non potremmo dire che abbia avuto una vita ordinaria, né tantomeno che il suo pensiero fosse in linea con le correnti mainstream del burrascoso periodo storico nel quale visse.
Yukio Mishima è forse uno dei pochissimi autori conosciuti e (purtroppo) riconosciuti sufficientemente dalla critica occidentale in toto: a volte tacciato di estremismo, altre più precisamente di fascismo giapponese, ben differente da quello storicamente indicato nelle cronache europee, cercò più semplicemente di difendere lo spirito culturale autentico del suo paese, immerso durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale in un mare di conflitti non soltanto bellici, ma anche – e soprattutto – culturali.
Nato e cresciuto all’interno di una famiglia dagli equilibri piuttosto precari, nella poetica e nella psicologia letteraria di Mishima, al secolo Kimitake Hiraoka, si possono ritrovare spesso tracce di quella che fu l’influenza ossessiva per la sua educazione da parte della nonna paterna.
Coabitando nella casa di Tokyo insieme ai genitori, infatti, il piccolo crebbe all’ombra dell’anziana donna, la quale si sostituì alla madre in ogni ruolo per sopperire al proprio senso di colpa scaturito da un matrimonio infelice. Rinchiuso nella stanza, infatti, fu concesso alla madre di visitarlo soltanto ogni quattro ore, e soltanto per il tempo necessario all’allattamento.
Soltanto dopo diversi anni, nel 1934, Yukio fu restituito alla libertà attraverso un sotterfugio; questo lungo periodo trascorso in clausura forzata lasceranno però un profondo solco nella mente del giovane, che ne racconterà le esperienze nel romanzo Confessioni di una maschera del 1949.
Un’altra conseguenza dell’educazione imposta dalla nonna, stavolta forse con qualche fortunato merito, fu la frequentazione di Mishima al Gakushuin: la cosiddetta scuola dei Pari, considerata non propriamente un istituto riservato alle élite, ma comunque destinato ad una ristretta cerchia di “promesse” della società. I giovani iscritti all’istituto venivano educati secondo un programma paramilitare inclusivo di sessioni di allenamento molto intense e indottrinamenti legati al credo nazionalista. Il giovane scrittore, però, ritrovò anche in questo caso la propria dimensione, e iscrittosi al club letterario, iniziò a pubblicare le sue poesie sul giornale della scuola.
Proprio in questo periodo, Mishima iniziò a redigere il suo primo lavoro di un certo rilievo dal titolo Hanazakari no Mori (= La foresta in fiore) intriso di stilemi mutuati dalla tradizione romantica giapponese, e per questo si fece notare dal professor Shimizu Fumio, docente di Lettere all’istituto. Grazie alla sua intercessione, l’autore vide pubblicata la sua opera prima su una rivista e poi in un libro, ottenendo un primo successo tra il pubblico.
Una volta terminata la scuola, il giovane continuò con la sua vita fatta di pressioni e malumori, stavolta ad opera del padre, il quale pretese l’iscrizione del figlio alla facoltà di giurisprudenza. Anche stavolta, sebbene contro la propria volontà, Mishima si dimostrò un eccellente studente vincendo un difficilissimo concorso per l’accesso al posto di funzionario statale presso il Ministero della Finanze.
Iniziò così la sua doppia vita che lo vede diviso tra il lavoro diurno e l’attività letteraria durante la notte: i ritmi insostenibili di queste “scelte” lo constrinsero a dormire pochissimo, e a vagare come un corpo vuoto per la città durante gli spostamenti di routine, finché un giorno non rischiò la vita cadendo per la stanchezza sui binari della ferrovia cittadina.
Di comune accordo con il padre, decise di abbandonare il prestigioso impiego in favore di una vita da scrittore, che avrà uno dei suoi momenti più importanti nella frequentazione con il premio Nobel Yasunari Kawabata, divenuto con il tempo suo mentore e maestro.
Legatosi per opportunismo alla rivista Kindai Bungaku vicina agli ambienti della sinistra, Mishima conservò sempre la sua forte vena nazionalista, convinto di dover perseguire la strada della protezione dei confini del Giappone, intesi come limiti del patrimonio culturale nipponico.
Il periodo a seguire sarà segnato da numerosi viaggi di grande ispirazione in qualità di inviato dell’Asahi Shinbun: Stati Uniti, Brasile, ma soprattutto la Grecia con il suo patrimonio artistico legato all’età classica, lo introdurranno al culto per il corpo umano e a studiare le arti marziali, in particolar modo il kendo, insieme al suo esercito personale, la Tate no kai (= La società degli scudi). Anche se al Giappone fu proibito avere qualsiasi tipo di organizzazione militare che andasse al di là di una formale autodifesa (secondo gli accordi postbellici con gli USA), Mishima giustificava la presenza del proprio gruppo in quanto definiva i suoi discepoli “difensori dello spirito giapponese”, e non veri e propri soldati come sarebbero potuti essere intesi.
Ora più che mai, il tema del sacrificio apparve preponderante nella sua poetica, e dopo l’apparizione del film da lui stesso scritto e diretto (Yukoku = Patriottismo, 1966) esso giunse a rappresentare quasi una peculiarità della vita di Mishima. Fu infatti nel 1970, all’età di 45 anni, che occupando la sede dell’esercito di autodifesa imposto dal trattato di San Francisco, tenne un celebre discorso intriso di ideali nazionalisti inneggianti al sacrificio per il bene del Giappone e alla vergogna riversata sulla nazione a causa degli accordi postbellici.
Rientrato negli uffici, si tolse la vita tramite seppuku (in occidente viene impiegato il termine harakiri, appartenente al registro parlato e considerato erroneamente più volgare del primo1). L’esito del rituale fu però piuttosto burrascoso, poiché l’amico fidato Masakatsu Morita, prescelto per la sua decapitazione (il kaishakunin), sbagliò per ben due volte il colpo di grazia a causa dell’emozione, procurando ulteriori ed atroci sofferenze allo scrittore, poi finito per intervento di Hiroyasu Koga.
Oggi Mishima viene ricordato il più della volte proprio per il suo gesto estremo, considerato tale probabilmente a causa della forte impressione mediatica suscitata da un’epoca nella quale tradizioni come quelle sopra citate vengono letteralmente “trasmesse” in tempo reale senza alcuna opera di contestualizzazione. Rimane il fatto che sempre meno spesso si tenda ad analizzare lo scrittore semplicemente per ciò che egli stesso volle rappresentare. Molto più comodo catalogarlo all’interno di filoni non ben delineati e piuttosto sfumati come quelli del “misticismo omosessuale”, dei seguaci di D’Annunzio (di cui comunque Mishima tradusse Le martyre de Saint Sébastien), o peggio ancora mescolando la sua poetica ad un flusso macro-politico come quello dei “nazionalismi”, da considerarsi probabilmente più come reazione organica agli eventi verificatisi negli anni precedenti, che come una scelta totalizzante per la propria cifra stilistica.
Certo è che Yukio Mishima figuri attualmente come lo scrittore giapponese più tradotto di sempre, e che, forse proprio a causa di intermittenti incomprensioni e scelte ardue da assimilare, egli abbia attirato a sé schiere di curiosi e di lettori appassionati, con il merito di avvicinarli ad una letteratura per loro altrimenti inedita.
1 Christopher Ross, Mishima’s Sword, p.68