Che amo la narrativa breve, pur senza disdegnare il romanzone (da I fratelli Karamazov di Dostoevskij a Middlesex di Eugenides, giusto per citare, solo a mo’ d’esempio, un classico e un’opera contemporanea) forse ormai è chiaro a chi legge queste Spigolature. Diciamo che prediligo la perfezione dell’architettura di certe storie che in poche pagine condensano il significato di un’intera esistenza, che si scorge in controluce attraverso un episodio preciso, quasi una finestra alla quale ci affacciamo lasciandoci sorprendere da un panorama sterminato. I primi nomi che mi vengono in mente sono quelli di Katherine Mansfield, di Antonio Tabucchi, di Alice Munro.
La riflessione di oggi nasce appunto da un racconto dell’autrice canadese di recente insignita del Nobel, Maschi e femmine, che fa parte della raccolta Danza delle ombre felici (Einaudi). Una storia di ambientazione rurale, una famiglia comune con le sue ordinarie dinamiche di conflitti striscianti. I protagonisti sono una bambina che è il maschiaccio di casa, più interessata ad aiutare il padre nei pesanti lavori di campagna che la madre nella preparazione di conserve, e il fratello minore, più pigro e sognante. Attraverso alcuni snodi cruciali attorno ai due ragazzini si stringe progressivamente la gabbia dell’identità di genere, che richiede al maschio forza fisica e noncuranza del pericolo e alla femmina fragilità e capacità di accudimento. Ecco come questo processo così comune, di solito inavvertito ma non per questo meno potente nella sua efficacia conformativa,viene descritto da Alice Munro, con poche pennellate nette: “Sembrava che nella testa di chi mi stava intorno si andasse consolidando una corrente di pensiero irremovibile, su quel tema. Fino ad allora, la parola femmina mi era parsa innocua e senza conseguenze, né più né meno di bambino. A differenza di quanto pensavo, una femmina non era semplicemente quel che ero, bensì ciò che dovevo diventare. Era una definizione, immancabilmente utilizzata con enfasi, rimprovero o disappunto.” E ancora, le frasi fatte della nonna su quello che le femmine non devono fare: sbattere le porte e sedersi a gambe larghe, per esempio. La piccola protagonista del racconto organizza una resistenza: “Io continuavo a sbattere le porte e a sedermi scomposta più che mai, sperando di mantenermi libera in virtù di questi espedienti”. Ma alla fine la serratura della prigione scatta, rinchiudendo la bambina nella metà del cielo in cui le reazioni emotive sono consentite e incoraggiate: “- Non importa – disse mio padre. Pronunciò con rassegnazione e perfino di buonumore le parole che mi avrebbero assolta e liquidata per sempre. – È soltanto una femmina, – disse. Non protestai, nemmeno in cuor mio. Forse era vero.” Femmina, per sempre.