Massimo Biagioni, dirigente di Confesercenti, pubblicista e scrittore, è autore, tra l’altro, di Pietro Caiani. Il Sindaco galantuomo (Pagnini e Martinelli, 2002), Scarpe rotte eppur bisogna andare: la resistenza in Mugello e Val di Sieve (pubblicato dallo stesso editore nel 2004); con Polistampa ha pubblicato Nada. La ragazza di Bube (2006), Achtung! Banditen! L’eccidio di Pievecchia a Pontassieve (2008), Ai bordi dell’inferno. Dante Brucci e compagni: piccole storie di uomini, della resistenza, della seconda guerra mondiale (2012). Nel 2006 ha avuto il riconoscimento di “Scrittore toscano dell’anno”, premio del Consiglio Regionale della Toscana.
Massimo, da poco è trascorso un altro anniversario della Liberazione e domani sarà ancora una volta il primo giorno del mese di maggio. A breve a Bologna si celebrerà, per iniziativa dell’associazione di volontariato La nostra Africa Onlus la settimana dei diritti umani (dal 6 al 13 maggio) con laboratori, conferenze e workshop organizzati da docenti e studenti dell’Università. Nel manifesto che sta circolando campeggiano i diritti umani, i diritti delle donne e dei bambini, il diritto all’acqua, al cibo, all’istruzione. A te, per la tua formazione e gli interessi che coltivi anche scrivendo libri, vorrei chiedere una riflessione sull’assenza del diritto al lavoro e dei diritti dei lavoratori da questo spettro ampio di sacrosanti diritti di ogni essere umano.
Oggi dovremmo fare uno sforzo per capire come affrontare il tema posto alla luce del portentoso cambiamento. Per dire, oggi i lavoratori europei stanno mediamente peggio, perché qualche centinaia di milioni di persone nel mondo stanno mediamente meglio. Oggi gli operai tradizionali sono in forte riduzione, il concetto di classe marxista è ormai il trapassato e ha fatto breccia uno spezzettamento che mira all’individualità. La politica è in crisi ma non è stata sostituita da nulla di meglio se non il qualunquismo esasperato e l’odio e il rancore diffuso a piene mani. La globalizzazione ha imposto la circolazione di uomini, merci e soldi. C’è chi vive di privilegi e di rendite parassitarie e chi non ha accesso all’acqua, all’educazione – vero motore del cambiamento del mondo – al cibo a sufficienza; le rivendicazioni europee viste dall’Oriente o dall’Africa sembrano picche di bambini viziati. Bisognerebbe riuscire a riordinare la stella polare e tutte le stelle intorno ma dubito che l’egoismo dell’uomo riuscirà. Il frutto avvelenato della crisi è che il singolo è sempre più disposto a tutto per accaparrarsi l’ultimo beneficio; la solidarietà è più una declamazione che una pratica, la fratellanza una parola da lasciare al Papa. Che mi pare l’ultimo, o forse l’unico, gigante della storia in questa fase.
Resistere, oggi, può essere ancora un valore praticabile? In che modo e in che senso?
Resistere può essere tradotto con un impegno nel conseguire le famose “basi di partenza” uguali per tutti soprattutto per quanto riguarda le condizioni minime vitali. Prima di insegnare la Parola di Dio – diceva in sostanza don Lorenzo Milani – bisogna che trasformi queste bestie di montanari in persone, dopo che saranno persone verrà la fede, i convincimenti, la politica, il sindacale. Gli strumenti, come si sarebbe detto qualche anno fa. Che in Africa magari si chiama cibo e acqua, per le donne l’affrancamento dalla schiavitù di fatto, per l’Occidente recupero di diritti e allentamento della precarietà.
Fra i tuoi libri Nada. La ragazza di Bube, colpisce particolarmente perché sulla storia di Nada e Renato si sono innestate − forse in qualche modo soverchiando la storia reale d’amore, morte e ribellione dei due giovani – le vicende trasfigurate di Mara e Bube nel romanzo di Cassola e nel film di Comencini. Immagino che per te sia stata una significativa esperienza non soltanto letteraria ma anche e soprattutto umana.
Esattamente. Il senso è quello di una donna che per anni e anni insegue l’emersione dei propri valori e della dignità. Io non sono quella donna, ha sempre urlato in riferimento al libro di Cassola e al film di Comencini, non ho avuto storie, non ho fatto l’amore prima del matrimonio (incredibile a sentirlo dire, ma è successo!), non sono la civetta che pensa alle scarpe nuove. Lo so che sono film e romanzi, ma quella sono io, altro che film e romanzi. E lo stesso per la memoria del marito; non era un violento, non era un bamboccio indeciso e pauroso, si è assunto responsabilità che non aveva e ha pagato per tutti senza vendette. Tanto che uscita la prima copia mi disse: “Ora posso anche morire, in un libro c’è scritta la verità!”.
Un fiume in piena, Nada, dal primo minuto che l’ho conosciuta, sempre disponibile a parlare, a raccontare la sua verità, gli episodi, i sentimenti, senza mai tentennamenti, come raccontasse un film i cui fotogrammi fossero lì davanti a lei, con i particolari, sempre gli stessi, senza esitazioni o errori. La forza di una piccola e grande donna, un amore coltivato, cullato, tenuto in grembo, poi vissuto solo per poco tempo, e poi custodito e innaffiato come un fiore per non farlo appassire. Da questo punto di vista la penna di Cassola poteva rendere la storia per intero un capolavoro migliore del pur lusinghiero successo. L’essere stato il mezzo con cui Nada ha preso voce e forma nella sua affermazione mi ha dato una gioia enorme. Perché Nada voleva tornare a primeggiare come persona e non come personaggio, riuscendo ad affrancarsi da quella Mara che per anni l’aveva soverchiata.
Grazie, Massimo, per il tuo tempo e le tue risposte.
Rosalia Messina