Decidemmo di farla finita un sabato sera d’estate.
Ci trovavamo al Rugantino. Sedevamo all’aperto e tu davi le spalle alle Colonne di San Lorenzo, come a voler nascondere dai tuoi occhi ogni cosa potesse essere dispersione e non intimità. Io invece mi perdevo ad ammirarle, considerando per un momento la tua presenza fastidiosa ed ingombrante.
Ordinammo un piatto di pasta al pomodoro e una bistecca ai ferri, insalata e vino rosso, anche se io non ne bevevo, anche se io non sapevo se con la carne ci volesse il vino rosso o quello bianco. O se quella sera fosse il caso di spendere così tanto per ritornare alla nostra vita solitaria, ciascuno per la sua strada, indossando solo ricordi, vestendo ferite.
“Facciamo una cosa molto formale. Terminiamola qua: non siamo fatti per stare insieme”, dicesti. E mi venne sete.
Mi presi del tempo per rispondere e anche per guardarti. Ignorai la tua frase, come mettendola fra parentesi. Mi versai un po’ di vino nel bicchiere, pulito ma opaco. Piccoli accorgimenti, minuzie e particolari forse irrilevanti suggerivano che la nostra storia era già finita, che ci eravamo seduti su quel tavolo faccia a faccia, ma per pura abitudine. In realtà stavamo condividendo soltanto una cena, non più la nostra felicità.
Non mi avevi versato tu da bere nel bicchiere.
Non avevi detto niente riguardo la mia camicia bianca, la tua preferita, quella che ogni volta che l’indossavo apprezzavi a voce alta, complimentandoti con me per averla messa, per averti conquistato per l’ennesima volta.
Non avevi suggerito di nascondere la mia borsa a tracolla sotto il tavolo, per poterci poggiare i piedi sopra: la lasciavo abbandonata contro una gamba del tavolo, quella di destra, e tu zitto, non dicevi niente, aspettavi io rispondessi.
Bevvi un sorso del vino: non mi piaceva.
“Facciamo una cosa molto formale. Terminiamola qua: non siamo fatti per stare insieme”, dicesti.
E a me venne un po’ da ridere, perché tu avevi ripetuto la stessa frase di prima, convinto che io non avessi sentito. Ma era impossibile non sentire tutto ciò, com’era impossibile ignorare un incendio o il botto di un petardo. Pensai che avrei potuto provocare la tua rabbia ignorandoti ancora, sorseggiando un altro po’ il vino, sbocconcellando la pagnotta di pane, succhiando gli spaghetti al pomodoro rumorosamente, alzandomi senza dirti niente per raggiungere il bagno a lavarmi le mani.
Risposi: “Ok, terminiamola qua. Cosa facciamo? Ci stringiamo la mano, ci abbracciamo, continuiamo a parlare come niente fosse, ognuno paga per sé e poi tanti saluti?”
Il mio tono di voce era più alto del solito, me ne resi subito conto, e teatralmente posai una mano davanti alla mia bocca: negavo di aver parlato veramente.
La sera lentamente scivolava appoggiandosi lievemente sulla tavola imbandita e sulle nostre fronti imperlate di sudore: tutto o quasi si colorò di blu, come in un ritratto di una notte a Parigi. Le stelle si affrettavano di popolare il cielo, brillando intensamente, invocando malinconia. Il tempo passava e noi non dicevamo niente: tra noi due c’erano distratti gesti camuffati da gentilezze, come il passarci il sale o il succo di limone, e soprattutto un silenzio insopportabile, rotto di tanto in tanto dall’eco della tua frase e della mia domanda. Come giocassero, le nostre parole si incrociavano e si inseguivano senza mai trovare pace, ingarbugliandosi tra loro e nelle nostre menti. Un serpente che si morde la coda, una ruota che rotola su se stessa, un asino che invano rincorre la sua carota.
In qualunque film o libro quei vuoti di silenzio si sarebbero riempiti con accuse e litigi, ritorni al passato, ai tempi in cui uno sbagliava e l’altro sopportava per non gettare all’aria un sentimento. Ma noi no, consumavamo piano piano la nostra cena come immersi nella quiete di una preghiera.
Magari non c’era bisogno di dire altro, pensai. Magari è finita già da tempo, magari l’abbiamo deciso insieme senza dircelo. Magari non riusciamo a portare a termine nulla perché niente è mai cominciato: ci siamo soltanti illusi di amarci, schiavi della nostra ingenuità.
Sapevo con convinzione che averti davanti a me, con la camicia a quadri aperta di due bottoni, con la collana nera comprata da un marocchino di piazza Duomo che ti lasciava sempre il segno nero sulla tua pelle, che tu cercavi sempre di eliminare bagnandoti di saliva l’indice, strofinandotelo sul collo, con i capelli scombinati, gli occhi vispi, le labbre bagnate di vino, le mani che spezzavano il pane e impugnavano le posate, sarebbe stato come una fotografia conservata sotto il cuscino: avrei aperto gli occhi la mattina guardandola, li avrei chiusi stringendola tra le mani.
Uno di quei ricordi che non sbiadiscono con l’andare del tempo, un magnetismo nuovo e sconosciuto alla metafisica che avrebbe attirato il mio cuore a quella sera calda e afosa ovunque io fossi, con chiunque dividessi il mio letto, a chiunque donassi le mie attenzioni. Una preghiera, un punto di riferimento, un migliaio di chilometri.
La nostra storia d’amore si concluse non formalmente, ma con eloquenza, con la forza dei nostri silenzi, la stanchezza di fare qualcosa per fingere che in due si sta bene, specie se si parla di me e te, la resa da parte di entrambi, che non avevamo bisogno di un’eventuale replica del nostro fallimento amoroso: ne eravamo spaventati. Ripetere tutto, corteggiarsi di nuovo, incontrarci per caso una domenica pomeriggio, sopportare i tuoi sbalzi d’umore, abituarti ai miei silenzi, non rispondere alle tue grida, smettere di tollerare la mia accondiscenza, ingoiare le tue critiche, darti motivo di esprimerne mille. Tutto questo ci faceva male, ci aveva già fatto male e avevamo bisogno di stare lontani e di curarci in solitudine, perché noi eravamo i due porcospini di Schopenhauer, che per stare vicini devono necessariamente farsi male.
Noi non volevamo più stare vicini, ci eravamo fatti così tanto male da non desiderarne ancora. Non avremmo retto.
Tuttavia, ad un metro di distanza da te, a miliardi di metri di distanza da te, riuscii a scovare dentro di me una forza che non pensavo di potere possedere. Come dei soldi conservati sotto un materasso o dentro un salvadanaio, sentii scorrermi nelle vene, sentii attraversare stomaco e cuore e polmoni e laringe e labbra, la forza di ricominciare, o forse la voglia di farlo, che s’era soltanto assopita per qualche ora.
All’improvviso mi maledii per aver tacitamente acconsentito alla tua – perché era tua, ora me ne rendevo conto, tua e solo tua – iniziativa di chiudere la nostra storia. Avvertii il vuoto delle mie giornate senza di te, la tua figura dissolversi, la sofferenza concretizzarsi, diventarmi amica.
Mi venne quasi voglia di ricominciare adesso quello che avevamo – avevi – portato a termine, risparmiando la sofferenza della separazione e la sopportazione dei tuoi comportamenti ingiusti e violenti, la stanchezza di vederti sempre assente e scostante per un’altra vita. Per molte altre vite ancora.
Senza proferire parola divorai la bistecca in pochi bocconi. I mormorii delle conversazioni provenienti dai tavoli vicini ai nostri, il rumore sporadico di un motorino che attraversava la strada, tutto restituì il nostro tavolo ad una dimensione meno intima e più reale, lontana dall’illusione che ti eri fatto tu di un “non più noi”, io di un “chissà, forse, magari, ancora noi”.
Fummo due semplici amanti seduti ad una tavola ben apparecchiata, che si scambiano occhiate forse perplesse, forse spaventate attraverso il vetro opaco di un bicchiere, che indovinano le loro spalle tra una bottiglia di vino rosso ed il cestino del pane, che rendono friabile il silenzio masticando un grissino, che si chiedono scusa quando forse, neanche tanto accidentalmente, i loro piedi si toccano da sotto il tavolo, che non è così stretto come il loro finto imbarazzo vuol fare credere.
Fummo due, uno più uno.
Fummo ladri di tentativi, perché le avevamo provate tutte per vivere serenamente insieme e non ce l’avevamo fatta, ma in cuor nostro sapevamo che saremmo stati peggio se separati.
Fummo padroni di menzogne, sperperatori di illusioni, vittime della nostra stessa caccia.
Quando la cena si concluse e le Colonne di San Lorenzo erano ormai stanche delle attente e meravigliate occhiate di tutti, decidemmo di alzarci da tavola, i tovaglioli appallottolati e miriadi di briciole sparse per la tovaglia chiazzata di vino e di resa.
Ciascuno pagò per sé, proprio come avevamo inizialmente stabilito.
Decisi che non appena varcata la soglia del ristorante ti avrei parlato e se fosse stato utile a farti rimanere accanto a me anche supplicato: riproviamoci, avrei detto. O forse l’avrei pianto, parole bagnate che si sarebbero asciugate al vento. Riproviamoci, costruiamoci un futuro doloroso ma non solitario. Avrei riesumato dalla mia memoria frasi sdolcinate di romanzi rosa o forse qualche dialogo d’effetto tratto da un film visto tanti anni fa, nella solitudine della mia casa.
Era un sabato sera come tanti altri e come sempre l’ultima corsa del treno mi attendeva: dovevo andarmene.
“Andiamo in Duomo, prendiamo la metro, ti accompagno in stazione e poi me ne vado, ok?”, proponesti. E chissà se scegliesti di andare in Duomo proprio per rispolverare il ricordo del nostro primo incontro.
Annuii. “Teniamoci per mano, però. Fino a che non arrivo in stazione.”
Mi prendesti la mano, protendendo il volto verso il mio.
Ci baciammo.
Qualunque fosse il numero spropositato di volte in cui tacemmo un addio, procrastinandolo all’infinito, a noi non importava: ricominciavamo sempre. Una volta in più e senza deciderlo.