Sbalordito il diavolo rimase, quando comprese quanto osceno fosse il bene.
John Milton (1608 – 1674) nasce a Londra, figlio di un notaio e compositore. Educato in una famiglia puritana, avrebbe dovuto prendere gli ordini sacri, ma sin dall’infanzia una strisciante insoddisfazione verso il clero anglicano lo pervase, spingendolo a rinunciare alla carriera ecclesiastica. Ognuno di noi ha bisogno di credere in qualcosa per vivere: la salvezza per John Milton non fu la fede, ma la letteratura. A rapirlo fu la poesia dei classici. Ovidio, Virgilio, Omero. La lettura di autori più moderni, Dante, Petrarca, Tasso, mise definitivamente in discussione le sue credenze, rendendolo irrequieto. E l’inquietudine lo spinse a viaggiare: gli anni della giovinezza trascorsero tra Francia e Italia, in un lungo peregrinare che sarebbe proseguito fino in Grecia, se lo scoppio della guerra civile in Inghilterra non l’avesse costretto a rientrare in patria.
Qui John Milton si dedica allo studio e all’insegnamento, approfondendo la conoscenza della storia e della politica e leggendo le Sacre Scritture. Il primo interesse gli apre le porte della carriera diplomatica: convinto sostenitore della Repubblica, l’appoggio fornito a Oliver Cromwell in occasione della guerra civile gli vale la nomina a segretario degli affari esteri durante il Commowealth – per lo stesso motivo sconterà la prigione in seguito alla restaurazione monarchica ad opera di Carlo II.
Più contrastati e gravidi di significato furono invece i frutti dei suoi studi teologici: il malcontento a lungo covato nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche spinse Milton a mettere in discussione l’interpretazione cristiana delle Sacre Scritture, dando voce al conflitto che in quegli anni si consumava e che vedeva lo spirito rinascimentale dibattersi fiero tra le strette maglie imposte dal pensiero della Riforma.
Da quest’impulso nasce la sua opera magna, un poema di impianto omerico, “Paradiso perduto” (1667), il peccato originale raccontato con gli occhi di Satana, cui seguirà nel 1671 “Paradiso riconquistato”. Dello stesso periodo invece il “Sansone agonista”, tragedia in cinque atti ispirata alle vicende bibliche di Sansone. Ma l’ambizione di Milton non si ferma qui. Terminata l’epoca giovanile e più spensierata dell’elegia (“Lycidas”, 1637) e dei poemetti (“L’allegro” e “Il pensieroso”, 1631), il suo “secondo periodo letterario”, che va dal 1640 al 1660, vede la pubblicazione di svariati libelli e pamphlet propagandistici in cui lo scrittore attacca apertamente l’istituzione episcopale.
Solo la maturità però lo condurrà a mettere in discussione la dottrina calvinista: nella sua ultima opera, “De doctrina cristiana”, Milton rigetta l’ipotesi della predestinazione in favore del libero arbitrio, sostiene la mortalità dell’anima e la necessità della resurrezione, nonché la subordinazione di Cristo, in quanto figlio, a Dio Padre. Una visione della Creazione che, pur fondandosi su una scrupolosa rilettura della Bibbia, non piacque negli ambienti clericali. Milton fu punito con la censura dagli uomini: bisognerà aspettare il 1823 perché il suo “De doctrina cristiana” venga tradotto dal latino all’inglese per ordine di Giorgio IV, non senza polemiche: 150 anni non erano bastati a cambiare il mondo, e l’opera suscitò numerose critiche e ipotesi di falsa attribuzione.
Da Dio, Milton aveva già ricevuto in vita il suo castigo: la cecità, che lo colpì nel 1652, costringendolo a lavorare con l’ausilio di un segretario nella speranza di portare a termine il sogno, coltivato sin dalla giovane età, di redigere uno studio completo della vita e della dottrina cristiana.
Tre volte marito e sette volte padre, infiammato dal desiderio di restaurare lo spirito religioso delle Scritture conciliandolo allo stesso tempo con una nuova forma di governo, favorevole al divorzio e strenuo sostenitore della libertà di espressione e di stampa, John Milton è considerato, per il carisma della sua personalità e l’innovativa visione del mondo espressa nei suoi scritti, il più importante scrittore britannico dopo Shakespeare. La sua figura umana e letteraria dà vita a quello che diventerà il cliché dello scrittore contrastato e incompreso nella sua epoca, solo alla luce del futuro considerato pioniere di quella successiva.
Ma a lui non sarebbe importato. Come scrisse lui stesso:
Meglio regnare all’Inferno, che servire in Paradiso.