Il viaggio di Dante e Virgilio nel regno di Satana sta per giungere a conclusione. I pellegrini si trovano nella bolgia in cui sono puniti i consiglieri fraudolenti, o più precisamente gli “orditori di frodi”. Si tratta di uno dei canti più celebri in assoluto.
E degno della celebrità del canto è l’incipit: dodici versi che sono passati alla storia come l’ “invettiva contro Firenze”.
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo’ nferno tuo nome si spande!
L’invettiva suggella il racconto del precedente incontro di Dante, nella bolgia dei ladri, con cinque suoi concittadini; ma qui si fondono splendidamente sdegno, amarezza e scherno. Il Poeta predice per la città oscuri castighi, augurandosi inoltre che essi avvengano presto, perchè tanto più doloroso sarà per lui ciò, quanto più egli invecchierà.
Prosegue quindi il cammino, e agli occhi dei viandanti e di noi lettori si svela l’immagine della bolgia infernale: all’interno del fossato bruciano tante fiamme, in oguna delle quali si trova un peccatore, come spiega Virgilio. Due similitudini illustrano poeticamente il nuovo paesaggio, che Dante paragona ad una campagna estiva piena di lucciole, le quali brillano sotto lo sguardo di un contadino che si riposa al termine della giornata di lavoro. Se quest’immagine rurale ci riporta per un attimo al mondo della quotidiana vita campestre, nella seconda similitudine l’autore della Commedia si serve della fonte più autorevole in assoluto, la Bibbia, dalla quale desume l’episodio del profeta Elia. Mentre questi percorreva una strada con il discepolo Eliseo, un carro infuocato trascinato da cavalli improvvisamente lo rapisce in cielo, lasciando attonito il discepolo, che vede la fiamma sola, sì come nuvoletta, in sù salire; e fiammelle sono quelle che Dante vede, ciascuna con un peccatore: fiamme che, quando parlano, sembrano lingue, le stesse con le quali hanno ordito trame fraudolente ai danni degli uomini. Ma una fiamma è diversa dalle altre e coglie l’attenzione del Poeta, perchè è biforcuta; il desiderio di rivolgerle parola è in Dante fortissimo.
Sono Ulisse e Diomede, i due eroi greci protagonisti di tante imprese nel corso della guerra di Troia. Non solo l’inganno del cavallo, ma anche il convincimento ad Achille – travestito con abiti femminili – affinchè prendesse parte alla guerra, nonchè il furto della statua di Pallade, conservata nella rocca troiana, la cui presenza nella città era garanzia di imprendibilità.
Ma – non ce ne voglia Diomede – il XXVI dell’Inferno è per tutti il canto di Ulisse. Figura di straordinario fascino, influente come forse nessun altro sul mito e sul folklore del mondo occidentale, Ulisse diventa tra le pagine del capolavoro dantesco il simbolo universale di due caratteri, l’astuzia e la sete di conoscenza, che il poeta fiorentino declina però – all’eccesso e in negativo – nei peccati cristiani della frode e della tracotanza.
All’invito di Virgilio, lo maggior corno de la fiamma antica, appunto l’eroe dell’Odissea, comincia una narrazione scolpita nella letteratura e nella memoria. Al centro di essa vi è un’immensa curiosità e fame di sapere, che neanche l’amore di padre e marito possono placare; l’arrivo ai confini del mondo allora conosciuto, le Colonne d’Ercole, oltre le quali nessuno si era mai osato spingere; quindi l’orazion picciola ai compagni di viaggio, con la quale sprona gli stessi verso l’ultima, fatale impresa:
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino
Centinaia di pagine sono state scritte su quell’aggettivo, folle, che connota l’estrema avventura dell’Itacense e che ricorre più volte in Dante: in esso vi è sempre l’idea di un eccesso, di un andare oltre il lecito non tenendo conto di limiti o divieti, insomma di una troppo grande fiducia in se stessi (e qui soprattutto Dante sembra guardarsi allo specchio). E il messaggio finale è quanto mai chiaro: dopo tanti perigli, i naviganti scorgono all’orizzonte una montagna bruna; ma quando sembra già fatta, una tempesta affonda la nave.
Il canto si chiude con l’immagine biblica di una fine annunciata.