Un intrico vegetale di arbusti e cepugli spinosi, la cui caratteristica sembra essere inaccessibilità e impenetrabilità; i lamenti funesti delle Arpie, che nidificano tra i rami secchi… Il regista Dante non smette davvero mai di sorprenderci. Nel tredicesimo canto della prima cantica, il Poeta costruisce l’ennesima maestosa sceneggiatura da incubo: di questo luogo – che gli ricorda l’aspra e selvaggia Maremma toscana – Dante fa il regno della dannazione per coloro che hanno usato violenza contro se stessi: i suicidi, che hanno volontariamente disvelto l’anima dal corpo, e gli scialacquatori, rei di aver distrutto i propri beni.
I due pellegrini percorrono un sentiero che li conduce nel cuore di questo sterpeto. Dante è smarrito e spaventato: sente lamenti e grida, ma non vede nessuno. Virgilio lo invita a spezzare un ramoscello, in modo che i suoi dubbi siano fugati. Il discepolo obbedisce, ma accade qualcosa di incredibile: i rami parlano. Di più, da essi fuoriescono parole e sangue. È l’inizio del meraviglioso racconto di Pier della Vigna, ministro, segretario e fido consigliere dell’imperatore Federico II. Perchè mi schiante? sono le prime parole dell’anima ridotta a cespuglio spinoso. Poi un verso memorabile, undici sole sillabe in cui c’è la storia e il destino dei dannati:
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi
Interviene Virgilio. È stato lui – dice – ad aver detto a Dante di rompere un ramoscello, pur sapendo del dolore che avrebbe arrecato. Ma adesso il dannato può raccontare la sua storia al pellegrino, che ne può restaurare la giusta fama nel mondo sù, dove tornar li lece. L’anima si svela:
Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi
Come anticipato, si tratta di Pier della Vigna, ministro nella corte imperiale di Federico II, il quale narra le sue vicende terrene, gli uffici da lui tenuti presso l’imperatore, la cieca fedeltà a quest’ultimo, la congiura ordita a suo danno dai cortigiani invidiosi, l’accusa di tradimento. Quindi, il suicidio. È un racconto che strazia il cuore di Dante; come già accaduto con Paolo e Francesca, il protagonista del viaggio è colto da un’emozione dirompente. Lì, al termine del dialogo con Francesca, sviene; qui è invece colto da afasia: Virgilio lo invita a domandare ancora, ma Dante non riesce nemmeno a parlare. A domandare è allora la sua guida: come si trasforma il corpo in pianta? Piero spiega che quando, con il suicidio, l’anima si stacca volontariamente dal corpo, viene precipitata nella selva, in un punto a caso, dove germoglia l’arbusto spinoso. Su di esso si accaniscono poi le Arpie, che accrescono il dolore pascendosi delle foglie. È una pena terribile: sono uomini, ma costretti all’immobilità delle piante; si sono privati del corpo umano, e adesso sono rivestiti da un corpo di natura inferiore, quello vegetale. Nemmeno dopo il Giudizio Universale – continua Piero – avranno, come tutti, i loro corpi: li trascineranno nella selva e li appenderanno, ciascuno al proprio albero, contemplando per l’eternità ciò di cui si sono volontariamente liberati.
Tutto il discorso di Pier della Vigna è adornato da uno stile particolarmente elevato, adatto alla tragicità della situazione e soprattutto alla grande dignità della figura, la cui memoria Dante – come spesso accade nell’Inferno – vuole riscattare.
Il dialogo con il ministro imperiale viene interrotto da una scena che sposta l’attenzione dei viandanti: nere cagne, bramose e correnti, alla rincorsa di due anime che cercano di scappare. Sono Lano da Siena e Iacopo da Santo Andrea, scialacquatori che hanno dissiapato e distrutto i loro beni: sul secondo si narra che avrebbe avuto in uso di buttare in acqua i soldi solo per passare il tempo, o incendiato le sue dimore per offrire agli ospiti e a se stesso un inusitato falò. È proprio Iacopo a nascondersi presso un’anima suicida, naturalmente in forma di arbusto; le cagne lo scoprono e ne lacerano il corpo a brano a brano (splendida l’onomatopea, che rende come non mai il dilaniarsi del corpo). Piange allora il cespuglio per le orribili ferite che acuiscono il suo dolore. Virgilio gli chiede chi sia, ma la pianta non svela il suo nome; l’episodio è noto con il nome, appunto, dell’ “anonimo suicida”: un omaggio ad una delle tante tragedie che la Storia non ha consegnato agli annali, ma che riempiva le cronache dei tempi. Attraverso una lunga metafora, del suicida si viene a sapere solo la patria, la Firenze tanto amata da Dante. Il verso finale del canto, che spiega come il suicidio per impiccagione sia avvenuto tra le mura domestiche, è lapidario e sembra campeggiare su tutta la selva:
Io fei gibetto a me de le mie case