In quella mattina del 21 novembre del 1945 la nebbia imbiancava il paese di Villarbasse e le sue case. Poco distante dal centro sorgeva la tenuta di Simonetto, un piccolo gioiello di efficienza aziendale in una Italia che mostrava tutte le ferite della guerra da pochi mesi conclusa.
L’alba s’andava diradando e parve strano che alla cascina non si sentissero le voci dei lavoranti o del padrone. Solo nelle stalle c’era rumore di animali.
In paese si sparse subito la voce che quelli della Simonetto erano stati rapiti. Gli uomini salirono sin lassù armati di fucili e pistole. Polizia e carabinieri arrivarono dopo un bel po’. E arrivò anche il capitano Marshall, comandante della Military Police della zona di Torino, già perché Villarbasse dista dal capoluogo poco più di dieci chilometri.
All’epoca la Military Police aveva il ruolo di coordinare e controllare le forze dell’ordine italiane (polizia e carabinieri) in fase di riorganizzazione. Il capitano Marshall non aveva dubbi. A sequestrare gli abitanti della Simonetto erano stati ex-partigiani comunisti. S’iniziò a perlustrare la tenuta e i boschi che la circondavono. Molti furono quelli che vennero arrestati. Ma in galera ci rimasero poco perché estranei ai fatti.
Le ricerche andarono avanti fino al 29 novembre quando s’arrestarono davanti ad una vecchia cisterna in disuso. Lì dentro furono trovati dieci corpi. Gli aggressori li avevano prima tramortiti con rudimentali bastoni e, poi, dopo aver legato le caviglie di ognuno a blocchi di cemento, li avevano gettati in acqua. Si capì che il movente era la rapina. Ma dei colpevoli non si sapeva ancora nulla. Si brancolava nel buio. Per caso, però, fu trovata, imbrattata di sangue, una giacca con un etichetta di un negozio di Palermo. Gli inquirenti iniziarono a muoversi su un altro terreno. Molti erano i siciliani che vivevano in Piemonte e s’arrangiavano con la borsa nera. In quell’ambiente dovevano trovarsi gli esecutori materiali della strage, secondo il sottotenente dei carabinieri Losco. E così fu. Quattro furono gli uomini individuati. Giovanni D’Ignoti, Giovanni Puleo, Francesco La Barbera e Pietro Lala. Il primo fu arrestato a Torino, Puleo e La Barbera in Sicilia. I tre confessarono di aver commesso l’eccidio, ma l’organizzatore del colpo, Lala, fu ucciso in Sicilia in circostanze poche chiare e risultò essere l’organizzatore perché alla Simonetto ci aveva lavorato per alcuni mesi.
I tre imputati furono condannati a morte e la sentenza fu eseguita il 4 marzo del 1947. Furono anche gli ultimi a subire quella condanna perché la Costituzione avrebbe di lì a qualche mese abolito la pena di morte.
Su questo fatto di sangue dell’Italia 1945 in rete ho trovato un articolo di Giorgio Bocca, apparso su La Repubblica, e poi, scovato nella mia libreria, il libro di Gian Franco Venè, La notte di Villarbasse. Aggiungo per dovere di cronaca che Gian Franco Venè è stato giornalista e scrittore di notevoli capacità e che al suo attivo aveva una decina di libri. Uso l’imperfetto perché Venè è morto nel 1992 e perché nessuno dei suoi libri è oggi in commercio.
Il suo racconto di quei fatti è di una lucidità senza ombre. Sullo sfondo c’è l’Italia stracciona del 1945. Una guerra appena lasciata alle spalle, mancanza di lavoro, odio sociale e ideologico, assenza di cibo e beni essenziali, trasporti inesistenti. In questo quadro matura la strage di Villarbasse dei quattro siciliani.
Due fatti turbano. Il primo è l’assenza di qualsiasi emozione da parte degli assassini. Con calma lasciano la cascina e lungo la strada si fermano a mangiare. Il secondo è la voglia di tutti di vederli morti. Anche Davide Lajolo, allora direttore dell’Unità del Piemonte, si schiera dalla parte dei giustizialisti.
Ma è il primo punto che mi interessa di più. Fruttero e Lucentini, prefatori del libro di Vené, scrivono in chiusura: “Quelle quattro ombre in marcia verso la cascina illuminata escono da una notte antichissima, da un primigenio abisso di cui sappiamo oscuramente di essere stati inquilini e nel quale potremmo di nuovo precipitare, con un piccolo passo”. Come a dire che la violenza non ha età, non è spiegabile con sociologia più o meno spicciola e che siamo tutti più o meno a rischio di ricadere nei suoi vortici di follia.
In quel lontano 1945, durante il processo uno degli imputati gridò: “Ci uccidete perché siamo siciliani”. Pare che l’abbia ripetuto davanti al plotone di esecuzione. Non so quanto di vero ci sia in questo grido. All’epoca in Sicilia c’era molta violenza e voglia di autonomia. E poi per capire un siciliano ci voleva l’interprete.
Ma oggi siamo nel 2012. E allora come interpretare le parole di quel cronista televisivo che, durante il servizio della partita Juve-Napoli, ha parlato di puzza dei partenopei?
Atteggiamento poco lucido. C’è violenza quando si fa impellente la necessità di annullare o sottomettere l’altro solo perché diverso da noi. C’è violenza quando l’io avverte che la scena gli deve appartenergli per intero.
In questo gioco la perversione è tiranna delle pulsioni ed è per questo, forse, che siamo tutti a rischio, come dicevano Fruttero e Lucentini.