Nell’ottocento il filosofo che ha riflettuto su l’essenza della vita con maggior radicalità è stato Friedrich Nietzsche.
In poco più di un ventennio e attraverso una quindicina di libri, il filosofo tedesco compie una rivoluzione copernicana tanto profonda quanto ardua, e a nessuno sarà più possibile fare seriamente filosofia senza un confronto con il suo modo di riflettere.
Eppure Nietzsche era un filologo classico.
La nascita della tragedia dallo spirito della musica fu il suo primo libro se si escludono gli scritti giovanili.
I Greci, così argomenta Nietzsche in quel volume, erano un popolo dall’esasperata sensibilità e mal tolleravano la vita nel suo gioco di nascita e morte. Per sopravvivere inventarono due divinità diametralmente opposte: Dionisio, dio del vino, dell’ebbrezza e, quindi, dell’eccesso orgiastico e di Apollo, dio della forma e del limite. Si contendono il campo, queste due divinità, ma nella grande tragedia attica trovano un accordo.
L’attore sulla scena interpreta diversi ruoli (o si nasconde dietro maschere diverse) ma resta sempre lui. Così questa forma d’arte si trasfigura e, alla fine, muore perché in platea fa la sua comparsa uno spettatore nuovo che si chiama Socrate e con lui la presa del pensiero sulle cose. La realtà non è più fluida, ma compressa dentro alla forma logica che divide il bene dal male, il vero dal falso, il bello dal brutto e così via. Ma la forma logica è anche in grado di assegnare a ciascuno una maschera a seconda del ruolo sociale che riveste. Da qui nasce il potere.
Nietzsche è consapevole di tutto ciò ed è anche consapevole che la filosofia è il suo vero interesse. Fa richiesta di passare da filologia a filosofia, ma non ci riesce, e allora si dimette.
Inizia per lui un periodo in cui passa da una città all’altra, afflitto da problemi fisici e da rapporti umani difficili e ciò nonostante non può fare a meno di riflettere e scrivere.
Comprende che il vero tarlo della società è il potere (che lui chiama decadenza), ma anche che questa malattia, prima di essere sociale, è essenzialmente culturale e che per vincerla non basta un’operazione di facciata, ma molto di più. Occorre sradicare le radici su cui l’occidente ha edificato la sua storia. Il suo metodo non è storico, ma genealogico. E allora l’affermazione in Umano, Troppo Umano che Dio è morto non è una professione di ateismo spicciolo, ma che a morire non è il Gesù che sulla croce scaglia una bestemmia di sofferenza contro il Dio che l’aveva abbandonato, ma quello usato da tutte le Chiese per imporre un proprio dominio sulla società.
Idem per l’idea di Superuomo che non va letta come antesignano della razza ariana (cosa che non sfiorò nemmeno per un secondo Nietzsche), ma come l’uomo libero dalla morale del gregge e in grado di sopportare il peso del nichilismo che profeticamente il filosofo immagina come unica chance riservata al genere umano.
Nel 1888 il suo pensiero si spense nelle tenebre della follia. Sulla pazzia di Nietzsche sono stati scritti decine di libri (una bibliografia praticamente sterminata). La causa, secondo i più, sarebbe da attribuirsi ad una sifilide non curata che il filosofo avrebbe contratto in un bordello di Berlino.
La mia idea è un’altra. La follia (ovvero il sonno della ragione) di Nietzsche è stata come un meccanismo di difesa eretto nei confronti di un pensiero travolgente e abissale a cui ancora oggi non siamo pronti. Nei suoi scritti il filosofo tedesco ci ha infuso la passione del poeta. D’altronde anche Nietzsche ci fa un accenno in Saggio di un’autocritica, breve prefazione del 1866 per una ristampa de La nascita della tragedia: “Peccato che io, ciò che allora avevo da dire, non abbia osato dirlo da poeta: ché, forse, lo avrei potuto”.