Credevo mi sarebbe cambiata la vita. E invece mi è cambiato solo lo scenario davanti agli occhi. Credevo, forse sbagliando, che Napoli mi avrebbe distratta, con i suoi colori, e i mille volti che immaginavo di incontrare. E invece sono i problemi a distrarre Napoli e undici maglie azzurre a tingerle il sorriso, quando lo stadio è pieno. Nelle città bisogna andare, questo ormai l’ho capito, e viverle, senza più accontentarsi dei sussurri di carta delle guide turistiche. Non credevo che Napoli potesse essere anche grigia di pioggia, ne’ che nei locali ci fossero più bistecche e patatine che pizza. In città la gente sorride poco, anche se ama parlare molto, negli autobus affollati e nelle fermate della metro, meno frequentate, quando scende la sera. Quando il caldo la svuota sembra una città come le altre, una distesa di saracinesche abbassate e monumenti, palazzi antichi e scooter. Il Vesuvio, il Lungomare, le Chiese spariscono nell’afa e rispuntano di notte, quando un popolo giovane e vivo invade la città per un caffè di notte agli chalet o un gelato, tra le colline di Posillipo. “E che Bambulella, ca ssì…!” mi ha detto un ragazzo dal motorino. Ed è per questo che ora sono ferma, inchiodata davanti all’Ospedale delle Bambole di Via San Biagio dei Librai, l’unico posto al mondo dove una bambola senza un braccio, o con la testa mezza guasta, come la mia, trova lo sguardo e le mani dolci di un artigiano, che la faccia tornare come nuova.