Postmoderni, classici, futuristi. Non cercate di inquadrarli in nessuna di queste categorie. Anzi non inquadrateli affatto, perché loro, i nuovi scrittori, non vogliono appartenere a nessun genere, a nessuna corrente. Semplicemente sono compositori, e fanno l’unica cosa per cui sentono d’esser nati, producono arte e cercano di diffonderla.
Sono i seguaci dell’Avantpop, movimento artistico nato negli anni novanta del XX secolo, diffusosi velocemente negli Stati Uniti, ma ancora poco conosciuto in Europa. Ne ha scritto il Manifesto, Mark Amerika, teorico e docente di arte digitale all’Università del Colorado.
Derivato del postmodernismo, l’avantpop fa il suo ingresso in società grazie alla musica, e alle numerose band che hanno tratto ispirazione dall’album del jazzista Lester Bowie, pubblicato nel 1987 proprio col nome “Avant Pop – Brass Fantasy”. I Nirvana, gruppo musicale formatosi alla fine degli anni ottante, proposero al grande pubblico un genere fino ad allora inesplorato, il grunge, e lo fecero pubblicizzandosi solo attraverso il canale tv musicale Mtv.
Si delinea così la caratteristica principale di questa corrente, l’autoproduzione. Il totale rifiuto delle imposizioni di grandi gruppi produttivi e distributivi.
La formula di distribuzione cambia radicalmente. Si passa da: Autore – Agente – Editore – Tipografo – Distributore – Rivenditore – Consumatore, ad un più semplice e diretto: Autore (Mittente) – Partecipante Interattivo (Ricevitore).
Comincia a prender forma l’idea di un “ricevitore” attivo, che codifica i testi non in maniera passiva, ma anzi li recepisce trasformandone il senso secondo il proprio punto di vista. L’autore non è più un uomo bisognoso di tirar fuori i propri mali e farli conoscere agli altri, l’arte è partecipazione pura.
Mescolare le carte. Prendere le caratteristiche di punta del sempreverde pop e trasformarle attraverso un’evoluzione: televisione, pubblicità, musica, fumetti, computer. Fare avanguardia partendo dai micro mondi in cui tutti i giovani si sentono costretti a nascondersi.
Linguaggi differenti che si fondono l’uno all’altro, generi musicali opposti, non ci sono intellettuali ma solo voci che, pur usando parole diverse, possono giungere a connettersi col mondo, urlando, scalciando, disegnando una nuova arte.
Un patchwork che si sviluppa, nell’era del digitale, in un’ottica del tutto diversa rispetto ai predecessori postmodernisti. Nel vortice dell’immaginario mass-mediatico, i giovani dell’avantpop ne approfittano per farne delle caricature e imbastirne un nuovo disegno: non vi è denuncia, né contrasto. Per imparare a vivere c’è bisogno di amare il nuovo mostro che è la nostra società, non c’è crescita per chi combatte senz’armi.
La chiamano la malattia delle informazioni, quelle create ad hoc dai mass media che invadono la nostra società. È una malattia a cui pochi riescono a sfuggire, e la cura è nell’accettazione.
L’avanguardia di un nuova prospettiva è l’amore-odio. Un binomio che ha reso noto ai più un autore prematuramente scomparso nel 2008, David Foster Wallace, che proprio il 21 febbraio di quest’anno avrebbe compiuto 50 anni. Wallace, conosciuto per il suo romanzo di successo, Infinite Jest, ha riportato alla luce un romanzo psicologico – futuristico di cui solo autori come Joyce, Zola o Borges possono ritenersi fautori.
I suoi romanzi trattano i più disparati argomenti e, in maniera apparentemente confusionaria e sconnessa, affrontano le paure più comuni dell’uomo nella moderna società: le difficoltà nei rapporti interpersonali, l’uso delle droghe, il ruolo sempre più importante del mondo dello spettacolo, dei media e dell’intrattenimento, e l’esasperata competizione sociale.
Come il nostrano “Blob”, Wallace era capace, in maniera mai impersonale e non consapevole, di analizzare il mondo intorno a sé con occhio critico e appassionato. Forse l’occhio del vero scrittore, quello che riesce a guardare aldilà della realtà, a quel futuro di cui tutti subiscono fascino e terrore.
Ossessionato dalla labilità dei rapporti umani, aggredito da una società mediatica, “in perenne crisi di mezza età” come lui stesso si definiva, Wallace non si è mai sentito un autore di culto, forse un acuto osservatore, sicuramente un talentuoso intellettuale.
«La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette “per sfiducia” o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. […] Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme.»