A un certo punto della mia vita ho scoperto di poter saltare in una canzone. Non è come quando uno le ascolta: è proprio saltarci dentro, come una scimmia nella foresta che di liana in liana fa due chilometri, si lascia cadere su un sasso e continua ad andare.
Con una liana andavo da casa a scuola, con l’altra al bosco di fronte, alla biblioteca e nelle chiese, con un’altra ancora al calcio, all’Edenlandia e alla piscina comunale. Un intero ecosistema che cambia metereologia ogni 4 minuti primi, ed io che cambiavo gli abiti al volo passando dal maglione alla t-shirt: ricordo ancora il Crombie blu che avevo addosso mentre navigavo i fiordi dei Sigur Ros, e le corse per mettermi comodo mentre stavo per finire su Jim Croce.
C’era sempre un pò d’estate quando passavano i Beatles, sempre la pioggia con gli Joy Division.
Sono stato ostaggio degli abiti viola e dell’India quando Terence Trent D’Arby iniziò con Prince a muoversi come un travestito pieno di gioielli: uno stanco mese di Settembre diventò freddo al suono del sax e tutto andò giù, ero anche io Seynanda Maytreia, e un pò L’Artista che tagliava i suoi ponti con il passato.
Sono stato un vagabondo pop in cerca della sua mensa dei poveri di cuore, ho trovato un sacco di gatti e di volpi sulla strada e ogni tanto ho messo via la giacca di pelle da Bee-Gee mentre la forma di un brano saltava da un Gibson all’altro: non riusciamo mai ad incontrare un circense in borghese, ci pare strano vederlo coi piedi per terra. Eppure dal trapezio si scende, non sempre si cade.
A volte ancora c’è la rete, salvezza e disonore degli acrobati.
Ho volteggiato a lungo quasi credendo come tanti che in fondo la musica non ha uno scopo se non quello di tenere a bada la mente: se fosse così, non avrei voluto ascoltarne altra. Sotto di me, sul piatto ovale di sabbia, troppi leoni a bocca aperta e senza aspirazioni.
Eppure ogni volta che un brano si prendeva il mio respiro io ho avuto la sopresa di un lampo negli occhi e d’un ceffone in faccia: “fottitene,” ho sempre pensato, “e continua ad ascoltare”.
Alla fine di tutto quel viaggio, quando pensavo d’essermi spogliato di tutto e avevo bruciato ogni vecchia lettera trovata in giro, ho trovato lei. Era nel primo verso di “Tears in Heaven” di Eric Clapton. Mi ero appena seduto al tavolino di un caffè letterario e mi resi conto che avrei combattuto ogni guerra che lei m’avesse chiesto di combattere: “Would you know my name if I saw you in heaven?” Saprai il mio nome se ci vedremo in Paradiso?
Era lì, dolce e un pò buffa che sorrideva, Dio m’era testimone e segnava un abbraccio sulla sua agenda. Io iniziavo a parlare troppo, come accade quando voglio impedirmi di respirare. Sul più bello è suonato il telefono e ho dovuto togliere la cuffia: non so com è il resto di quella canzone.
Ho passato ciò che restava della mia adolescenza a girare la manopolina della radio a vuoto, aspettando che riapparisse. Poco ma sicuro.
Time can bring you down; time can bend your knees
Time can break your heart, have you begging please, begging please
il Paradiso non è un posto facile.