Un giorno, in un bosco denso di colori e suoni, si schiuse un uovo d’uccello.
Ne venne fuori un pulcino bagnato e tremante.
Ma a differenza del resto della covata, che reclamava a becco aperto il cibo, l’ultimo pulcino non pigolava.
Mise le penne come i suoi fratelli. Ma non cinguettava.
Un giorno aprì le ali e si lasciò andare, cullato dal vento, incoraggiato dal volo dei suoi fratelli maggiori.
Ma nessuno poté udire i suoi trilli di gioia.
L’uccellino era muto.
Fu difficile crescere: quando devi conquistare l’attenzione del tuo papà e della tua mamma arruffando le penne, aprendo e chiudendo il becco, saltellando da un ramo all’altro perché non puoi tirare la voce, diventare adulto è una conquista.
Tra una beccata e l’altra, uno svolazzare di penne e piume quando l’aria del nido si scaldava, ce l’aveva fatta.
Però il mondo oltre il tuo albero è un’altra cosa.
Specialmente se non sai cantare, se non tiri fuori la voce. Se ti resta nella strozza come un verme maldigerito. Se non riesci ad attirare l’attenzione di una compagna, a segnalare un pericolo o un frutteto succulento.
Tutti sembrano più bravi di te e conquistare il tuo pezzo di cielo è difficilissimo.
Giunse il tempo di migrare. Gli stormi si radunavano e l’eccitazione era palese: i becchi s’agitavano, le penne fremevano.
Trilli, cinguettii, richiami… decine, centinaia, migliaia di lingue intrecciavano le proprie voci.
L’uccellino s’intristiva ancora di più nell’ascoltare quei canti dai quali era irrimediabilmente escluso.
Nell’udire una gioia della quale non si sentiva partecipe.
Un vecchio si staccò dai compagni e gli si avvicinò, le zampe tremanti, le ali afflosciate.
«Giovanotto, parlo con te. Riesci a sentirmi?».
Il capino dell’uccello si abbassò.
«Io sono troppo vecchio per partire. Ma ho visto il mondo – un lampo denso di ricordi passò nei suoi occhi – e non ho rimpianti. Tu però sei libero».
Libero? Lo sguardo dell’uccellino era sorpreso. Come poteva parlare di libertà quel vecchio che aveva avuto la possibilità di volare gridando la gioia delle ali, cantando la felicità di vedere sorgere il sole e di scorgere il becco dei propri piccoli fare capolino dall’uovo?
«Sei libero di cercarti il tuo posto nel mondo. Anche senza poterne parlare. Lo racconterai a te stesso. E se a qualcuno importerà, ti capirà anche senza che tu apra becco».
L’uccellino abbassò la testa, confuso ma come incendiato da un grido infuocato che gli bruciava dentro.
LIBERO!
Non partì con gli altri.
«Sei rimasto per me? Guarda che non voglio farti da balia».
L’uccellino rimase.
Ascoltò per giorni e giorni le storie del vecchio, che gl’insegnò tutto quello che sapeva.
E che un giorno non si fece trovare al solito ramo del solito albero.
L’uccellino adesso era davvero libero. Muto e solo.
Ma non volle deludere il vecchio amico.
Non volle sprecare quella libertà che s’era conquistato come un’ala scolpita dai venti e dalle tempeste.
Viaggiò per tutte le terre e i mari.
Contemplò con un silenzio colmo di adorazione lo splendore del sole e delle stelle, il chiarore della luna, la terra vestita di fiori a primavera, gravida di frutti in estate, seria nel dorato declinante autunno, addormentata nella fredda malinconia dell’inverno.
Trovò una compagna forte e coraggiosa tanto da seguirlo nei suoi viaggi, che gli diede la felicità di generare una nidiata di piccoli trillanti e gioiosi di vivere.
Giunse il giorno di rendere le ali a Dio.
Per volare oltre.
Oltre i suoni del mondo, il fragore delle cascate, il mormorio dei ruscelli, il mugghiare del mare, il pigolio dei suoi piccoli, il cinguettio amoroso della sua compagna. Oltre il canto di tutti i ricordi del suo piccolo cuore che aveva cessato di battere, lui sì adesso veramente muto.
Si ritrovò in un giardino meraviglioso, più bello di tutti i luoghi che aveva visto o immaginato.
«Giovanotto, ci si rivede a quanto pare».
Il suo vecchio amico! La gioia gli esplose in petto.
«Poi sei riuscito a trovare il tuo posto nel mondo?».
La domanda era affettuosa e ironica insieme. La confusione dell’uccello non era tanto diversa da quella di tanti anni prima, nel mondo di là.
Una luce calda e profumata, che sapeva di biancospino e ciliegia, di terra bagnata e vermi saporiti, vestita di ogni fiore, colorata di ogni sfumatura dell’iride, d’improvviso cominciò a risuonare.
L’uccello udì una sinfonia di suoni, una melodia meravigliosa contrappuntata da tutti i rumori e i bisbigli, i sussurri e le grida di ogni creatura vivente. Gli parve di riconoscere le voci dei genitori, dei fratelli, dello stormo, della compagna tanto amata, dei suoi piccoli.
Ma era l’universo intero che emetteva tutti i suoni possibili in un impasto stupefacente.
Era bellissimo.
L’uccello sentì calde lacrime corrergli lungo il volto, giù fino alle zampe.
Il mondo cantava la gioia di vivere ma la sua voce muta non c’era.
«Tu non ascolti come si deve, giovanotto. Ti limiti ai suoni».
Che c’è oltre ai suoni? Tutto quello che è vivo canta, anche le piante lo fanno. Stormiscono, urlano perfino, se il vento le scuote.
Questo dicevano le lacrime dell’uccello.
«Le pause, giovanotto. I silenzi. Non senti? Quelli sono tuoi. La musica più meravigliosa non ha senso senza il silenzio. Tu hai contemplato la bellezza del mondo senza ciangottii inutili, senza gracchiare la tua presunzione, senza gloglottare le tue pene. E il tuo silenzio ha riempito d’armonia la musica dell’universo».