Di solito – l’ho scritto più volte – consiglio la lettura di libri che mi sono piaciuti. Preciserei: che mi sono piaciuti molto. Non è che stavolta le cose stiano in modo del tutto diverso, perché del romanzo di Daria Bignardi, L’acustica perfetta (Mondadori), ho apprezzato alcune cose. Mi piace il tema di fondo, l’idea che possiamo vivere accanto a qualcuno, credere di amarlo, anzi amarlo al massimo delle nostre temperature affettive, senza conoscerlo davvero. Tematica non nuova, ma è perfino stucchevole ripetere che tutto è stato raccontato innumerevoli volte e che solo il modo in cui lo lo sguardo dello scrittore si posa sulle cose può essere nuovo e rendere interessante una storia che assomiglia a tante altre. E poi le scene dal matrimonio di Arno, violoncellista della Scala, e di Sara – due che dall’inizio alla fine del libro si trovano, si perdono, si ritrovano, si perdono ancora e alla fine trovano se stessi, ma ciascuno per conto suo – è raccontata anche bene. L’intreccio prende (almeno, ha preso me). Però ho alcune perplessità. Non tutto, in questo romanzo, mi sembra plausibile. Arno appare (e in fondo si crede) il marito perfetto. Un po’ superficiale, lo ammette lui stesso, ma presente, affettuoso, fedele. Però di Sara tante cose gli sono ignote. E quando lei sparisce senza spiegazioni, lasciando dietro di sé solo un messaggio che non chiarisce le ragioni della sua necessità di andar via, Arno si mette – superati il disorientamento e la rabbia – doverosamente in discussione. Si lancia sulle tracce di Sara e si esamina, si trova colpevole di aver capito poco di lei e di non aver voluto capire di più, di essersi accontentato di quello che lei voleva dirgli. Ammirevole, ma stupisce (almeno, ha stupito me) che, mentre scopre l’impalcatura di menzogne che Sara gli ha ammannito, Arno arrivi a ritenersi responsabile dell’opacità del rapporto, invece di giungere alla conclusione che se nulla sa è perché nulla di vero Sara ha voluto fargli sapere, stordendolo con quelle che durante la ricerca si rivelano clamorose invenzioni. Che dire? Una persona che gioca a farsi scoprire non mi sembra vittima della superficialità del prossimo, non mi sembra legittimata a non sentirsi amata per quello che è, nell’eterno gioco delle coppie in cui a turno entrambi i componenti sono vittime e carnefici. La presa di coscienza di Arno mi sembra eccessiva, sbilanciata, quindi poco credibile. Chi mente ha poco da dolersi se il mistero avvolge i suoi dolorosi trascorsi e le sue disfatte. Cosa si deve fare con persone così? Tempestarle di domande? Spiarle? Affidarsi a investigatori privati? Certo, Arno dà per scontato il disagio di Sara, piuttosto evidente, ma le menzogne di lei, alle quali ha creduto, sono più che sufficienti a far apparire le sue “stranezze” del tutto comprensibili. In questo quadro, ammesso che Arno sia particolarmente propenso a mettersi in discussione, bisognoso di dare un volto preciso a un senso di colpa indistinto, che alla fine si condensa nell’improvvisa consapevolezza di essere interessato alla musica sopra ogni cosa, sorprende che nessuno, intorno a lui, lo scuota, dicendogli che Sara ci ha messo anche del suo, e tanto, per non essere percepita come davvero è. Ecco, è davvero strano che tutti, amici e parenti anche strettissimi, sembrino trovare perfettamente comprensibili e giustificate sia la fuga di Sara, sia l’autocolpevolizzazione in cui man mano Arno si va immergendo. A me tutto questo suona poco verosimile, come pure altri aspetti minori che evito di approfondire; preferisco infatti che i lettori entrino nella storia di Arno e Sara con un bagaglio non troppo ingombrante di informazioni. Comunque, L’acustica perfetta è un libro che consiglio di leggere. Magari mi direte se la pensate come me oppure no.
Rosalia Messina