Immanuel Kant, uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi, ha cercato di dimostrare che la Ragione non dirige soltanto la conoscenza, ma anche l’azione umana. Nel capolavoro Critica della ragion pratica, il filosofo distingue una ragione pratica pura da una empirica. Nel primo caso, la ragione è indipendente dall’esperienza; nel secondo, essa opera sulla base dell’esperienza e della sensibilità. Il nucleo tematico della seconda grande opera che caratterizza la fase “critica” del pensiero kantiano è in questa scissione, nata dalla consapevolezza che la morale, secondo Kant, è irriducibilmente segnata dalla finitudine dell’uomo, e necessita di essere tutelata da ogni forma di fanatismo, ovvero la pretesa di far misurare le possibilità umane con quelle di un essere infinito. Cioè, in perfetta polemica con la scolastica medievale e la metafisica cartesiana, la rappresentazione di Dio.
Il motivo base dell’opera è la convinzione che esista una legge morale valida a priori, sempre e per tutti, ovvero una legge etica assoluta. Senza questo presupposto la morale è una chimera, oppure, se esiste, dovrà essere considerata universale e incondizionata, ovvero pura da ogni inclinazione sensibile, e guidare la condotta umana in modo stabile.
Di conseguenza, l’assolutezza della morale implica due concetti strettamente legati tra loro: la libertà d’agire (o libero arbitrio), e la validità universale e necessaria della legge (si badi bene a non confondere la legge morale da quella giuridica). La morale, essendo incondizionata, implica l’auto-determinazione come necessaria capacità umana, atta a superare le sollecitazioni istintuali; non soggetta alla mutevolezza dell’esperienza sensibile, la legge morale risulterà universale e necessaria, sempre uguale a sé stessa in ogni tempo e luogo.
Come si regola, allora, la nostra volontà? Secondo Kant esistono dei principi che la orientano, e sono di due tipi: la massima come prescrizione di carattere soggettivo, valida solo per l’individuo che la fa propria, e l’imperativo, ovvero una prescrizione di carattere oggettivo, valida per tutti gli individui.
Gli imperativi, a loro volta, si suddividono in ipotetici e categorici. Gli imperativi ipotetici prescrivono dei mezzi in vista di determinati fini, ed hanno la forma del “se… devi” (se vuoi migliorare, devi impegnarti…); quelli categorici, invece, ordinano il dovere in modo incondizionato, a prescindere dallo scopo, ed hanno la forma inequivocabile e perentoria del “devi”. La morale non potrà risiedere negli imperativi ipotetici, essendo condizionati, o condizionabili, e mutevoli. Solo l’imperativo categorico, afferma Kant, ha i connotati della legge: un comando che vale per tutte le persone, senza alcuna distinzione. Essendo universale, assoluto e incondizionato, esso s’identifica con la Morale.
Ma cosa potrà mai comandare un imperativo categorico? In quanto incondizionato, eleva a legge l’esigenza stessa di una legge. Una legge morale, per Kant, significa al contempo una legge universale, ovvero essa trova la sua massima compiutezza solo quando prescrive all’individuo un azione secondo una massima che può valere per tutti. Infatti, la formula base dell’imperativo categorico recita: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale.” Ad esempio, chi mente non può universalizzare l’inganno nei rapporti umani. In altri termini, chi prescrive una legge deve sempre tener conto degli altri, e non solo di sé stesso.
Ciò che è essenziale e decisivo nella legge morale è la sua formalità. Infatti se fosse materiale, ovvero prescrivesse contenuti concreti, essa non sarebbe incondizionata e libera, e si ridurrebbe a qualcosa che si determina con dei precetti o norme. La legge morale (o imperativo etico) non è costituita da codici, articoli, leggi di alcun tipo, o norme da seguire. Essa non ordina in vista di un fine, essendo universale e incondizionata, e non soggettiva e particolare. Il diritto, la giurisdizione o giurisprudenza, la legislazione, ed altre forme di codificazione o regolamentazione, non appartengono alla dimensione della morale. Il formalismo kantiano non afferma una forma senza alcun contenuto, ma la fonte perenne e immutabile della moralità stessa, un ideale che orienta e alimenta i costumi dei popoli nel loro progredire storico.
Il cuore della moralità kantiana sta tutto nel dovere per il dovere, ovvero non ridurre la moralità a una semplice legalità. Secondo Kant, non basta che un’azione sia fatta esteriormente conforme alla legge. La morale implica sempre una partecipazione interiore. Ovvero, per ricollegarmi al ragionamento di prima, il mondo della Morale è interno all’uomo, quello della Norma esterno ad esso. Kant sostiene che non è morale ciò che si fa, ma l’intenzione con cui si fa una determinata cosa, e che, presa di per sé, la volontà è incondizionatamente buona nella sua piena adesione alla legge morale, in quanto non soggetta a puri scopi egoistici e tendenziosi, mentre altre qualità umane, come il coraggio o l’intelligenza, possono essere usate anche per recare dolore.
In definitiva, il dovere e la volontà innalzano l’uomo al di sopra della vita sensibile, dove vige la Libertà, ed una vita morale è sempre una vita soprasensibile, nella quale la legislazione morale prende il sopravvento su quella naturale. Tendere alla Libertà, in termini filosofici, non significa abbandonare la vita sensibile, ma è totalmente il contrario, ovvero affermare la dimensione morale nella dimensione sensibile e in virtù di essa, ovvero dell’esperienza umana.
La fondamentale svolta della morale kantiana consiste nell’aver posto unicamente nell’uomo, ovvero nella ragione umana, il senso ultimo delle sue azioni.