Mi chiamo Màrica. Ho dieci anni. Almeno credo: è quello che dice la mamma quando vengono i vigili. La sento dal finestrino sul letto che dice che non sono andata a scuola perché ho la febbre. E in realtà la febbre io non ce l’ho davvero. Quindi forse non ho neanche davvero dieci anni.
Comunque io a scuola non vado. Ci andavo quando ero piccola, ma poi abbiamo cambiato casa. E la scuola è sparita insieme alle maestre, alle mie amiche, alla stanza che dividevo con le bambole, alle bambole, quasi tutte. Me ne sono rimaste un paio, ma sono vecchie e mi fanno schifo. All’inizio restavo male quando le cose sparivano: una mattina mi sono svegliata e non c’era la casa, non riconoscevo le strade, mi sentivo come Pollicino quando semina il pane per tornare a casa, solo che io seminavo briciole di bambole e maestre e amiche. Non dico davvero, è per farti immaginare. E comunque a casa non sono più tornata.
Mi vergognavo all’inizio quando dovevo fare la cacca nell’aiuola, in mezzo al traffico. O quando vedevo mia madre tirare fuori lo stendino e far vedere a tutti le mutande lavate alla fontana. Poi ho fatto l’abitudine.
Ho capito che non c’era altro modo, che la nostra era come la casa delle streghe, messa su zampe di gallina, per correre e nascondersi. Non so bene chi sia il nemico, quelli con cui la mamma discute più spesso sono vigili mannari e assistenti sociali che nascondono dietro gli occhiali sguardi gialli e cattivi, ma fino ad ora ce la siamo cavata sempre. Le assistenti vampire (però non devono sapere che le chiamo così) dicono a mia madre che sono intelligente, ma che invento troppe storie e questo non mi fa stare bene. Invece a me inventare storie piace un sacco. Quando stavo male, prima che la vita si sbriciolasse, mi mettevo nel letto e mi inventavo una vita in un pianeta rosa e viola dove le famiglie non esistono, e se esistono non litigano, e se litigano è solo per decidere dove andare in vacanza. Ma poi fanno pace e in vacanza vanno in tutti e due i posti e lui porta alla mamma delle rose e a me una bambola al giorno. Invece prima lui portava a casa gente per la droga anche se la mamma urlava. E poi di notte veniva a svegliarmi e mi faceva male.
Ma adesso ha finito perché la mamma e la polizia l’hanno scoperto e portato via.
Ha! Ridevo un po’ quando l’hanno portato via con la testa rotta perché la mamma gli aveva tirato la pentola in testa, però non mi sono fatta vedere che ridevo perché avevo paura che si liberava. Loro dicono che io racconto troppe storie ma a queste hanno dovuto credermi per forza, perché i dottori che mi hanno visitata in mezzo alle gambe giravano la faccia anche se la mamma mi aveva lavata cento volte, e poi mi davano ragione.
Mi sarebbe piaciuto tornare dalla nonna, dopo, ma la mamma ogni volta che glielo dico si arrabbia e strilla che in quel buco nelle montagne non ci torna. È una delle poche volte che si arrabbia con me, per cui ora non lo dico quasi più. Per questo dobbiamo vivere nella roulotte, in mezzo al traffico della città, perché siamo due donne sole, mi ripete sempre, e anche se io le dico che non siamo sole perché siamo due, lei ha molta paura. Non so se ha più paura che torna lui o che entra un barbone o un ladro.
Ogni mattina quando vai a scuola ti guardo, non so quand’è che ho iniziato. Ma ormai so molte cose di te: so che hai una casa senza zampe di gallina, che hai uno zaino colorato e le scarpe da ginnastica e le maestre che non vogliono che fai tardi. So che ti piace la musica, perché hai sempre le cuffiette e a volte fai un passo come per ballare. So che non scappi mai, non hai paura dei vigili e non vuoi vivere su un altro pianeta perché in questo stai bene. Lo vedo da come ridi. Oggi ho provato a salutarti, ma non mi hai vista e io mi sono nascosta.
Potevo dirti che non so se ho davvero dieci anni?