Essere gay e musulmano, scrittore e allo stesso tempo figlio di un paese e di un mondo, quello arabo, in cui vige ancora la censura. Abdellah Taïa ha 39 anni adesso, e vive a Parigi. Alle spalle ha un passato tormentoso, che si porta cucito addosso come una corazza, insieme alla sua appartenenza, il laccio insolubile che lo unisce a doppio giro al suo paese d’origine, il Marocco, che nonostante tutto non ha dimenticato.
Conosciuto dai media come il primo scrittore marocchino a fare outing in un’intervista rilasciata nel 2006 a due dei giornali arabofoni più letti in Marocco, al-Ayam e al-Jarida al-Okhra, e in un paese in cui l’omoessualità è ancora considerata un reato legale, Abdellah Taïa si ritiene oggi un uomo fortunato. Il perché è semplice: a lui è stata offerta una possibilità che a molti, uomini e donne, eterosessuali e omosessuali, in Marocco come altrove viene negata. Parlare. Raccontare se stesso e la propria vita, e farlo per gli altri. Perché, in fondo, nessuno scrittore scrive mai solo per se stesso.
Scrivere per me non coincide con un’operazione terapeutica. Scrivere non mi aiuta a risolvere i miei problemi, […] non è mai un atto egocentrico. Si scrive per gli altri. Si scrive perché non se ne può fare a meno. Si scrive con il desiderio inconfessato di cambiare il mondo.
Nato a Salè, cittadina al fianco di Rabat, nel cuore del Marocco musulmano e moralista, Abdellah ha sempre saputo di essere “diverso” dagli altri uomini. Una diversità vergognosa, per la quale ha pagato il prezzo sulla sua pelle. Molestato da bambino dagli uomini del suo quartiere, etichettato come “frocio” ed emarginato dalla comunità, abbandonato perfino dai genitori che preferivano fingere di non vedere gli abusi piuttosto che ammettere l’omosessualità del figlio e proteggerlo, a 13 anni Adbellah è costretto a diventare un uomo.
A 25 anni fugge dal Marocco opprimente di Hassan II, un’epoca buia per il paese, in cui vige una forte repressione delle dissidenze e ignoranza e povertà regnano supreme, e si rifugia in Europa. Dopo aver terminato gli studi all’università di Ginevra va a Parigi nella speranza di diventare regista, per realizzare quel sogno sbocciato durante l’infanzia quando, insieme alle sorelle, guardava i film egiziani che raccontavano favole di amore e libertà tanto lontane dalla sua realtà di vita, fatta di molestie e ipocrisia. Intanto, Abdellah scrive e inizia a pubblicare. All’improvviso si ritrova scrittore, in mano un potere mai sognato prima e mai ponderato attentamente: quello della parola “pubblica”.
Abdellah inizia a raccontarsi, riversando se stesso, il suo “io omosessuale e marocchino” nel mondo, “al centro del mondo”. Un fiume in piena che sarà in grado di oltrepassare persino la censura del suo paese d’origine. A “L’esercito della salvezza” (2009) seguono “Uscirò da questo mondo e dal tuo amore” (2010) e “Ho sognato il re” 2012, quest’ultimo vincitore del Prix de Flore in Francia. Da allora tutti i media, anche in Marocco, hanno iniziato a parlarne, e il libro è stato anche tradotto in arabo. Abdellah Taïa diventa un caso editoriale: impossibile ignorarlo anche per la ferrea stampa marocchina. Anche perché lui, in Marocco, ci torna quasi ogni mese.
Un legame che, dopo l’emigrazione, sembra essersi rafforzato. Anche se vivere in Francia l’ha aiutato a gestire meglio la sua omosessualità, Abdellah non si sente in esilio: il rapporto con il Marocco è indissolubile, così come quello con la lingua araba, che resta la lingua madre, quella del corpo con cui esprimere sensazioni e raccontare verità viscerali.
L’arabo (nella sua variante marocchina) è invece la lingua dell’intimità, la lingua con cui ho cominciato a sognare e che mi resta tuttora attaccata alla pelle. Perfino il modo di esprimermi in francese, in fondo, ha un gusto arabo, come le cicatrici che porto addosso.
L’arabo è anche la lingua con cui Adbellah ha trovato il coraggio di parlare della propria omosessualità.
Non si è trattato propriamente di coraggio, piuttosto di un momento di estrema lucidità […], il proseguimento di un percorso interiore intrapreso proprio attraverso la scrittura. Un percorso letterario ma anche politico. Scrivere ha rappresentato il passaggio dalla teoria all’azione, la mia discesa sul terreno di battaglia per difendere l’idea di un Marocco libero da tutti i suoi complessi.
Un percorso lento e difficile che ha impegnato e impegna tuttora l’intera società marocchina. E, dopo la primavera araba, Abdellah si sente ottimista, in diritto di sperare in un futuro migliore per il suo paese. Un futuro che, seppure a distanza, o forse proprio grazie a questa circostanza, lui stesso ha contribuito a creare con i suoi romanzi, autobiografici ma mai spudorati, che raccontano pezzi di una vita vissuta nella vergogna e nella paura, una vita che accomuna molti uomini e donne figli di un paese in cui il libero arbitrio è ancora una lontana utopia.
Dare voce a quegli uomini e a quelle donne sconosciute è stato, ed è, per Abdellah Taïa, il modo migliore, e l’unico possibile per lui, di dare il suo contributo al progresso sociale e civile del Marocco. Dimostrando, ancora una volta, il potere impensato della letteratura sulla società, sul mondo, e soprattutto sulla vita degli uomini.
Oggi, Abdellah continua a scrivere, ed ha anche realizzato uno dei suoi sogni: quello di vedere trasposto in pellicola uno dei suoi romanzi. “L’esercito della salvezza” sarà presto un film.
Abbiamo girato in Marocco, questo è un altro segno che le cose stanno cambiando. Davvero.