Con la Commedia il rischio di ripetere lodi ed encomi, nonchè di adoperare aggettivi superlativi, è perennemente in agguato. Anche in questo canto V, vette di poesia eccelsa vengono toccate con la grazia e l’eleganza che solo Dante sa conferire.
Il viaggio nel regno del Purgatorio comincia ad entrare nel vivo. I due poeti abbandonano la schiera dei negligenti, con cui erano entrati appena precedentemente in contatto, e proseguono il cammino, quando accade un episodio che già abbiamo visto esser frequente e che continuerà ad esserlo: un’anima si accorge che il corpo di Dante fa ombra e avverte ad alta voce i compagni. Il Sommo Poeta indugia e rallenta il passo, provocando la reazione di Virgilio, il quale lo rimprovera – anche abbastanza bruscamente – invitandolo a stare come torre ferma, che non crolla/già mai la cima per soffiar di venti. Dante recepisce e arrossisce; il sentimento è spiegato con versi meravigliosi:
Che potea io ridir, se non “Io vegno”?
Dissilo, alquanto del color consperso
che fa l’uom di perdon talvolta degno
L’azione prosegue con l’incedere di un’altra schiera di anime, che intonano insieme il Miserere. Accortosi anche loro che Dante è vivo, interrompono il canto; due di loro si staccano dal gruppo e si avvicinano ai pellegrini per chiedere spiegazioni. La guida – ormai come suo solito – conferma l’eccezionalità del caso di Dante e invita i due messaggeri a riferire agli altri che la presenza di un vivo costituisce per loro un’opportunità, una fonte di giovamento.
Entriamo a questo punto nel cuore del canto. Le anime fermano Dante, pregando di guardarle con attenzione per riconoscere eventualmente qualcuna di esse, e svelano la loro condizione: sono i morti di morte violenta, pentitesi negli ultimi istanti della loro vita. Dante afferma di non riconoscere nessuno, ma si mostra disponibile e si dichiara pronto ad esser loro d’aiuto. Un’anima prende allora la parola: è Iacopo del Cassero, capitano delle milizie e podestà di Bologna, che si era opposto con tutta la sua forza alle mire sulla città del marchese Azzo d’Este, la cui vendetta – a lungo covata – si consuma nel più tragico dei modi: Iacopo infatti si credeva al sicuro nel territorio di Padova, mentre si recava da Fano a Milano, quando i sicari lo raggiunsero in una palude, trafiggendolo in un lago di sangue.
Il secondo dialogo si svolge con Bonconte da Montefeltro, valoroso combattente ghibellino, morto nella battaglia di Campaldino contro Firenze nel 1289. Cè rassegnazione e tristezza nelle sue parole, per la dimenticanza in cui è caduto presso i cari. Racconta poi, su domanda di Dante, dello scempio del suo corpo dopo la morte, preceduto da un episodio narrato in versi meravigliosi: la contesa tra l’angelo e il demonio per la sua anima. Pentitosi in punto di morte nel nome della Vergine Maria, Bonconte si salva per sempre, sigillando la sincerità dell’atto con una lacrima che gli scende sul viso. Il demonio, persa la partita grossa dell’anima, si vendica sul corpo, facendolo finire nell’Arno e seppellendolo sotto i detriti trascinati dal fiume in piena.
Il canto si chiude con le parole di uno dei personaggi femminili più celebri della Divina Commedia. Bastano i soli sette versi finali. Sarà per l’alone di mistero che ha circondato la morte, per la splendida musicalità dei versi, per quel tono di dolcezza, pacatezza e sollecitudine tutta femminile: fatto sta che la storia della letteratura italiana si riempie della figura di una tale Pia, della famiglia dei Tolomei di Siena, sposa di Nello dei Pannocchieschi, podestà di Volterra e Lucca, da lui uccisa in moto di violenza sulle cui cause ancora oggi c’è discordanza (infedeltà della donna, gelosia, desiderio di convolare a nuove nozze?). Nella memoria rimane quell’endecasillabo superbo in cui c’è tutta la vita della donna (Siena mi fè, disfecemi Maremma). A noi piace chiudere con gli stessi sublimi versi con cui Dante chiude il canto:
“Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via”,
seguitò il terzo spirito al secondo,
“ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fè, disfecemi Maremma:
salsi colui che ‘nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma”.