“Un volto si affaccia da tutte le sue tele…egli si nutre del volto di lei giorno e notte…non come è ma come appaga il sogno di lui” (C. Rossetti)
Sono alcuni versi di In an Artist’s Studio, composta nel 1856 da Christina Rossetti ma volutamente pubblicata postuma nel 1896, contenente una chiara critica al rapporto del fratello, il pittore preraffaelita Dante Gabriel Rossetti con la sua musa, amante e poi moglie Elisabeth Siddal.
“Affascinante” ,“donna senza pari”, “signora impareggiabile”, “genio ineffabile”, “che se vive sarà una grande artista”, “dotata di grazia, bellezza, coraggio, forza di sopportazione, arguzia, umorismo, eroismo e dolcezza ineguagliabili”: sono solo alcune delle definizione che diedero di lei gli artisti e gli intellettuali che fecero parte o gravitarono attorno al movimento Preraffaelita. Ma Elisabeth Siddal in una sua poesia si definì così: “Non sono altro che una creatura spaventata/ Né potrò mai essere nulla/ Se non un uccello dall’ala spezzata/ Che deve volare via da te.” (Worn Out)
Di estrazione sociale modesta, la “creatura stupendamente bella”, “di un’altezza magnifica, con una figura adorabile, un collo maestoso e un viso con la più delicata raffinatezza”, venne scoperta nel negozio di modista dove lavorava dal pittore Walter Deverell, instradata nella poco rispettabile professione di modella, sottoposta ad un processo di estetizzazione e spersonalizzazione ed infine elevata al rango di musa come Emma Hill e Jane Burden.
La Pre-Raphaelite Brotherhood, fondata nel 1848 da Dante Gabriel Rossetti, William Holman Hunt e John Everett Millais, era figlia dell’arte “primitiva”, cioè dell’arte dei pittori del Medioevo e del primo Rinascimento italiano, così definita non tanto per la resa rudimentale delle figure e degli ambienti ma per la subordinazione dell’arte all’esigenza primaria della verità religiosa e morale. Durò poco ma il tempo sufficiente ad influenzare l’arte con quell’elemento estetizzante confluito poi in un erotismo spiritualizzato, che caratterizzò tutta la pittura e la poesia degli artisti Preraffaeliti, in contrasto con il moralismo vittoriano imperante.
Se il più autorevole critico dell’epoca, John Ruskin, polemizzò contro la società capitalista e lo sfruttamento del lavoro, sostenendo le sue tesi neo-medievaliste incentrate sulla solidarietà sociale della civiltà comunale italiana, Dante Gabriel Rossetti nel suo racconto Hand and Soul (1850) si calò in quell’epoca vestendo i panni dell’immaginario pittore rinascimentale Chiaro dell’Erma che, in crisi creativa, riceve la visione di una figura femminile, che altro non è se non la sua stessa anima. Così, al pari di Dante Alighieri, di cui era appassionato conoscitore e traduttore, Dante Gabriel Rossetti, ricercò la sua Beatrice, anzi la creò quale significante della sua personalità e del suo genio artistico e la plasmò come Pigmaglione. Elisabeth Siddal divenne l’incarnazione della Beatrice anglosassone, angelicata dal Dante vittoriano rimandando all’ideale femminile de la Vita Nova e alle madonne del Beato Angelico, in contrapposizione alla degradata condizione della donna inglese di metà Ottocento, la fallen woman, donna perduta o, spesso e volentieri, prostituta.
Da Dante’s Dream, Dante and Beatrice in Eden, Beatrice Denying Her Salutation dipinti negli anni Cinquanta fino alla Beata Beatrix (1864), concepito un anno dopo la morte di Elisabeth, e al quale lavorò per dieci anni, la creatura fragile, enigmatica, vergine malinconica in attesa di essere salvata, assunse una connotazione sempre più ambigua, fatale e cupa, anticipando l’immagine della divoratrice di uomini, torbida ed inquietante figura di una certa pittura simbolista e decadente, fino a sconfinare in atmosfere vampiresche e necrofile.
Del resto la triade romantica di bellezza-amore-morte, era già stata ben rappresenta da John Everett Millais che ritrasse la Siddal come la tragica eroina shakespeariana Ophelia (1852) con la quale la donna finì per essere essere identificata, nella bellezza e nell’amore mitizzati ed eternati dalla morte. Un’immagine perfettamente aderente a questi suoi versi: “Il fiume che sempre scorre/ Lungo il suo letto erboso,/ Le voci di mille uccelli/ Che risuonano sul mio capo/ Mi porteranno un sogno più triste/ Quando questo triste sogno sarà morto./ Un silenzio cade sul mio cuore/ E fa tacere ogni sua pena. / Stendo le mani nell’erba alta/ E mi addormento ancora,/ Per restare lì, vuota di ogni amore,/ Come spiga di grano battuta”. (A Year and a Day)
La leggenda vuole che la modella posò immersa nell’acqua per giorni senza lamentarsi nemmeno quando sopraggiunse una polmonite. Questa immagine passiva ed accondiscendente, insieme alla misteriosa malattia che venne di lì a poco, che oggi sintetizzeremmo in anoressia, contribuirono a creare il mito femminile e masochista della donna che, amando troppo, si consuma per amore. Rossetti, di ceto sociale elevato, tenne la Siddal sempre ai margini della sua vita: ritroso nell’introdurla in famiglia, rimandò diverse volte il matrimonio, concluso in extremis nel 1860, quando la salute della donna era ormai appesa ad un filo.
Elisabeth Siddal morì l’11 febbraio del 1862, a soli trentadue anni. Il cognato, William Michael Rossetti, si adoperò affinchè l’ipotesi del suicidio, a causa dell’infedeltà del marito, che già circolava nei salotti londinesi, non finisse sulla stampa. La malattia, che l’aveva quasi riscattata ed elevata al rango di lady, secondo quell’immagine stereotipata di donna fragile e sempre sul punto di svenire, era diventata la manifestazione del suo disagio interiore al quale aveva reagito “curandosi” col laudano, l’oppiaceo dal quale, quasi certamente, divenne dipendente e il cui abuso fu, con molta probabilità, causa della sua morte.
Dagli anni Cinquanta in poi, Elisabeth aveva riempito fogli e fogli con versioni rivedute, corrette più volte, delle sue poesie, spinta forse dall’insicurezza e dall’insoddisfazione. Dopo la sua morte, venuta a conoscenza di questi scritti, Christina Rossetti propose al fratello di pubblicarne qualcuno insieme ai suoi in una raccolta. Dante fece propria l’idea ma quando nel 1870 pubblicò a sua volta la raccolta Poems, delle poesie di Elisabeth non c’era traccia. Non si era fatto troppi scrupoli, tuttavia, a farne riesumare il corpo per recuperare le poesie inedite di cui aveva fatto dono all’amata, sette anni prima, deponendole, in un estremo gesto romantico, nella sua bara.
Così quel “gemito di pena e pathos” rimase soffocato, quelle “poesiole malate d’amore”, seppure intrise di “indipendenza e freschezza di ispirazione”, furono accantonate perché, sebbene “belle”, erano “terribilmente tristi per pubblicarle in blocco”.
Ci sono voluti decenni, quasi un secolo, perchè Elisabeth Siddal fosse conosciuta e riconosciuta come artista, perché fuggisse dalla gabbia dorata dell’idealizzazione femminile in cui Dante Gabriel Rossetti e i Preraffaeliti l’avevano rinchiusa, un secolo per non essere più “come una colomba che ascolta solo il proprio compagno” (C. Rossetti, Listening) ma un uccello che vola libero con le sue ali, anche se spezzate, e fa sentire la propria voce, presentando “la vera se stessa” come nell’Autoritratto (1853-1854), immagine fedele di Elisabeth Siddal, molto lontana da quella che ne diede Rossetti in tutta la sua opera, facendo del suo volto una “monomania”, ripetuta all’infinito in decine di dipinti e di disegni.
I disegni di Elisabeth, al contrario, ispirati alle donne del mondo poetico di Alfred Lord Tennynson (The Lady of Shallot) e Robert Browling (Pippa Passes), svelano un mondo femminile più intimo ed autentico, desideroso di uscire dai cliché casti e contemplativi entro cui sono state relegate, per esprimere la loro natura di donne che hanno sperimentato la vita sulla terra, “dove l’amore vero non è concesso” (Dead Love), in cui anche la poesia cortese perde il suo romanticismo: l’uomo che siede umile ai piedi della donna, non è che un ipocrita pronto a rivolgere la sua “lussuria degli occhi “(Lust of the Eyes) altrove, non appena la bellezza della sua donna sarà sfiorita.
Elisabeth Siddal non fu solo la stunner, bellezza mozziafiato, icona tragica costruita spesso ad arte, anche recentemente, da biografi alla ricerca del melodramma sensazionalistico, ma un’artista di talento e una donna dalla forte personalità che, nonostante la fragilità nella sua vita, fu anche capace, nella sua opera, di distacco e di calma indifferenza, talvolta con un “freddo, amaro sarcasmo”: “Non schiudere le labbra, stolto,/ E non rivolgere verso di me il tuo viso/ Le saette del Cielo ti abbatteranno/ Prima che io ti conceda la grazia” (Love and Hate).
Una storia che induce a riflettere sulla donna di oggi che, pararafrasando le parole delle sue poesie, non deve “languire, morire, né svenire” ma “restare e cantare”, riappropriandosi della vera se stessa, al di là dell’immagine patinata e svilita a cui la condannano certi ideali maschili.