La tentazione era irrinunciabile, ma non resisterle poteva provocare conseguenze disastrose: Marco già immaginava se stesso avvolto dallo spago, con la bocca e le mani inchiodate. La scena era effettivamente raccapricciante, eppure il suo desiderio di capitolare non dava segni di cedimento.
E le circostanze, tutto sommato, gli erano favorevoli.
Marco era solo in casa, il gatto sonnecchiava e per fortuna non proferiva parola!
Chi avrebbe potuto vederlo? Certo, bisognava essere prudenti; d’istinto Marco si affacciò, voleva assicurarsi che non ci fossero i soliti curiosi bravi a scrutare nelle case altrui posizionati dietro le finestre. Tirò un sospiro di sollievo quando si accorse che le persiane del quarto piano di fronte erano sbarrate, il caldo torrido aveva portato tutti al mare. Anche il cortile era deserto e il ronzio del ventilatore spezzava, appena, l’immobilità di una domenica d’estate in città. Fuori ogni cosa sembrava coperta dal silenzio. Non si sentiva nulla. O quasi. In realtà Marco, chiuso in un vortice di curiosità e paura, riusciva a sentire chiaramente le sue pulsazioni cardiache. Il cuore gli batteva all’impazzata. Marco era piuttosto agitato, in uno stato di apprensione simile solo a quello che provava prima di andare alla lavagna.
Chiuse la finestra e si distese sul divano. Per un momento si sentì sollevato pensando a quanto fosse comodo restare soli in casa e sdraiarsi sul divano senza togliersi le scarpe da ginnastica. Un momento dopo l’agitazione risalì. Marco chiuse gli occhi e portò le mani davanti alla bocca come faceva ogni volta che aveva bisogno di calmarsi per prendere una decisione. Riflettendoci si rese conto che non c’era proprio niente da decidere, non doveva farlo e basta. Lo aveva promesso alla nonna poco prima che andasse in chiesa. Marco si era appena svegliato e non ricordava come mai avessero iniziato a parlarne, eppure gli erano rimaste impresse le parole della nonna e il tono d’irreparabilità che aveva usato.
Marco è come un peccato mortale. Se lo fai sei condannato alla morte. E io ho bisogno di te.
Certo la morte a Marco faceva paura, ma secondo lui c’era di peggio. Alla televisione non sembrava poi così tremenda: c’era gente schiantata al suolo quasi confusa con l’asfalto che si risvegliava dopo poco secondi, più forte di prima.
Probabilmente –pensò Marco battendosi la mano sulle labbra –dipende da quello che hai combinato. Se non hai fatto un granché muori e poi ritorni sicuramente in vita.
E in fondo Marco si considerava, nel complesso, una brava persona. Tentò di fare una specie di bilancio della sua breve esistenza. Non trovava che ci fosse nulla di grave da rimproverarsi, salvo un paio di insufficienze in matematica e certi giorni in cui desiderava di essere qualcun altro, uno di quei bambini ricchi, non orfani e con il motorino assicurato a quattordici anni.
Ci volle un po’ di tempo prima che l’indulgenza nei confronti di se stesso venisse meno e gli ritornasse in mente la sua ultima, terribile cattiveria. Come aveva potuto? Era stato davvero crudele a trattare a quel modo una bambina. Come aveva fatto a restare indifferente, a continuare a tirarle la coda bionda senza fermarsi neanche davanti al suo pianto dirotto? Una sensazione di panico gli attraversò il corpo e lo costrinse ad alzarsi dal divano. Gocce di sudore iniziarono a bagnargli la fronte e non certo per la lentezza del ventilatore, i cui giri erano, oramai, arrugginiti dal tempo. In Marco iniziava a crescere un senso di vergogna, forse non meritava di stare al mondo.
Era come se un giudice grande e grosso, entrato d’improvviso in casa, lo stesse avvertendo dell’imperdonabilità dei suoi errori. E Marco per un istante riuscì a vederlo. Seduto a gambe incrociate in poltrona, con i baffi neri lunghi e lo sguardo truculento, assomigliava al Signor Preside.
Evidentemente non c’era soluzione. Marco aveva raggiunto la consapevolezza che i suoi peccati non gli avrebbero concesso più di qualche minuto. Sentiva che la morte sarebbe arrivata da un momento all’altro.
E adesso ne aveva davvero paura.
Ma quella paura lo illuminò facendolo ragionare in termini pratici: se la fine era così vicina non poteva che concedersi l’ultima tentazione!
Attraversò come una furia il lungo corridoio e arrivò in camera della nonna. Aprì il comodino e prese le sigarette e l’accendino. Dopo il primo tirò si limitò soltanto a tossire e a constatare l’esagerazione della nonna quando insisteva nel dirgli che chi fuma a dieci anni si ritrova, dopo il primo tiro, avvolto dallo spago, con la bocca e le mani inchiodate. Aspirò ancora tossendo il secondo tiro poi il terzo, fino a quando il filtro della sigaretta non si consumò. L’aroma rimastogli in bocca non era particolarmente piacevole.
Con la testa che gli girava e un altro peccato da espiare, Marco, si appoggiò sul letto. Gli era venuto un gran sonno e più che vergogna e paura adesso provava una certa noia. Fosse stato per lui, poteva succedere qualunque cosa!
Quando la nonna tornò a casa per prima cosa accese una sigaretta pensando, ancora una volta, che doveva smettere di fumare. Poi diede un bacio sui ricci scompigliati del nipote che dormiva profondamente.
D’un tratto sentì un rumore provenire dall’ingresso. Si guardò attorno, aveva come la sensazione che in casa ci fosse stato qualcuno.
Era il gatto che graffiava la porta.
Il giudice era andato via prima che Marco accendesse la sigaretta.