Non c’è dubbio che riassumere in poco più di mezz’ora tutto ciò che accade nel mondo sia difficilissimo. Un telegiornale non potrà mai essere esaustivo né, immagino, ambirà ad esserlo. La carta stampata, che ha più spazio materiale e maggiori possibilità d’approfondimento, potrà fare di più, mai tutto. Malgrado queste doverose premesse non c’è dubbio che, nella scelta delle notizie di rilievo di cui parlare o scrivere, i nostri media tradizionali operino scelte discutibili: riescono a trovare lo spazio per la prodigiosa nascita di una zebra a pois e la gravidanza di questa o quella soubrette, e ignorano invece alcune importanti tematiche. Le generalizzazioni sono dannose ma è innegabile che ad essere viziata sia una grossa fetta della proposta informativa, rendendo preziosi i contributi di chi non si piega a logiche di mercato o di piaggeria, e l’apporto informativo della rete che, dal canto suo, gode di una libertà di veicolazione dei messaggi straordinaria, ma necessita di un lavoro di scrematura da parte del lettore che non sempre si trova di fronte ad una fonte attendibile (da qui il proliferare delle bufale). Perché alcune notizie non circolano affatto, se non eccezionalmente, con i mezzi giornalistici più accreditati e risalenti? Perché alcune informazioni non arrivano con la forza dirompente che possiederebbero se si desse loro la possibilità di dispiegarla? Emblematico il caso della situazione delle carceri italiane e della cronaca giudiziaria in generale. Le risposte agli interrogativi di cui sopra sono ovviamente diverse, ma il problema simile.
Grazie all’assurdo proliferare delle trasmissioni televisive, in special modo quelle pomeridiane, che si vantano di rivolgersi alle casalinghe (come se le casalinghe fossero una sottocategoria sfortunata e decerebrata) la figura del carcerato, in via preventiva o definitiva poco importa, è assurta al ruolo di mostro scellerato da eliminare buttando la chiave della cella e scordandosene. Il principio retributivo per cui chi sbaglia paga ha un indubbio valore, rappresenta un deterrente personale e generale ovvio, e la funzione rieducativa del carcere? L’interesse per le condizioni di chi ha sbagliato ed ora paga, che vive in condizioni di disagio estremo, è così viziato dalle immagini e dai racconti ripetuti fino alla nausea del corpo della “piccola Sara” e dalla bellezza della “povera Melania”, che il tema non può trovare asilo nei mezzi d’informazione, per il timore di inimicarsi il pubblico. I carcerati si suicidano? Pazienza, un mostro di meno. I fenomeni sociali sono affrontati come al mercato, in un salotto di cattivo gusto ci si scambiano opinioni su omicidi di donne e bambini quasi fossero consigli sulle qualità di cavolfiore. L’abuso del temine “battaglia” maschera un uso strumentale del dolore altrui. Che significato e valore etico possono avere i racconti dettagliati di omicidi efferati, con tanto di simulazioni in diretta in orari nei quali ci sono minori in ascolto? Il messaggio che ne consegue è spaventoso. Non sarebbe forse il caso che il garante per l’infanzia, quello per la privacy o quello per l’informazione limitassero queste scelleratezze? Invece prosegue questa barbarie che alimenta visioni distorte in numerosi ambiti, che denuncia senza spiegare, capire, riflettere.
La realtà carceraria è drammatica, le celle sono zeppe di esseri umani costretti in spazi angusti, come fossero polli di batteria, a nulla sono valse le ripetute condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, l’ultima risalente all’8 gennaio, condanna intervenuta per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che proibisce la tortura e i trattamenti inumani o degradanti. E i media attendono lo sciopero della fame di Marco Pannella per interessarsi all’argomento, aspettando il morto come avvoltoi, guardando però all’uomo figura pubblica e non alla sua causa, nonostante nel 2012 ci siano stati ben 60 suicidi tra carcerati, che a suicidarsi spesso siano anche gli agenti che lavorano nelle carceri, che altissimo sia il numero dei morti per malattia tra i detenuti, e che sono già 3 quelli che si sono tolti la vita in questi primi giorni del 2013. Il carcerato non è dunque uomo, è feccia da eliminare, sebbene il principio che la pena detentiva abbia come fine la rieducazione del reo sia sancito a livello costituzionale.
La deriva giustizialista dell’informazione, che si limita al racconto eccezionale di coloro che commettono nuovi reati a seguito magari del godimento di misure alternative alla pena, chiude invece vigorosamente gli occhi davanti a questa strage: 753 morti suicidi negli ultimi 13 anni. Deriva giustizialista che non coinvolge i potenti. E allora il giornalista può plasmare la verità all’occorrenza, il reato prescritto per un politico viene tramutato in assoluzione da un telegiornale e in mancanza di prove da un altro, la custodia cautelare, misura abusatissima nel nostro paese, è ritenuta corretta o scorretta a seconda di dove la banderuola giri al momento. Non va dimenticato che reati come l’immigrazione clandestina, che lede non si sa quale bene giuridico, portano dritti in carcere. Tutti con Sallusti, condannato per un reato basato sulla responsabilità oggettiva, nessuno con un uomo che ha solcato il mare alla ricerca di una possibilità di sopravvivenza. Lungi dal pensare all’impreparazione di professionisti accreditati, è ovvio allora ritenere si tratti di bieca piaggeria in alcuni casi, e di sensazionalismo voyeuristico spicciolo in altri. La televisione e i giornali, la prima in particolare, rinunciano del tutto al loro ruolo educativo e allo stesso tempo informativo per cedere a necessità “altre”, al servizio del potente e del gusto del pubblico. L’informazione che fa? Dimentica. Ignora. Tace. La colpevolezza non c’entra, nessun uomo merita la situazione odierna, sia o meno colpevole. Se la civiltà di una nazione si misura dal modo in cui tratta i soggetti più deboli noi siamo senza dubbio all’età della pietra, e se la valutazione coinvolge anche l’impegno dei meda perché ciò cambi, beh, qui non c’è nemmeno mai stato il Big Bang.