Da quando mi hai lasciata sono cambiata. Non frequento più i ristoranti cinesi, ora vado agli indiani. Mi vesto di abiti costosi ed eleganti, ho dato ad una suora tutti i miei jeans strappati, le maglie con le frasi in inglese che mai capivo, le terribili All Stars rosse con le borchie. Anche i capelli sono diversi: hanno un taglio più definito, un nero che prima era viola melanzana. Metto l’ombretto, ho tolto il piercing al naso. Non canto più sottovoce quando cammino, non leggo nessun libro se devo aspettare qualcuno. Nemmeno me ne porto dietro uno.
Adesso quando torno a casa faccio altre strade: passo per viali che prima evitavo, rotonde, incroci, semafori, mentre prima mi bastava andare sempre dritto e poi girare a destra. Mi fermo ad accarezzare il cane nel giardino sotto casa mia. Io che ho sempre detestato quel cane che abbaiava sempre quando guardavo la televisione o dovevo studiare. Adesso gli compro i croccantini, mi faccio leccare la mano, persino il viso. Chi se ne frega.
Quando guido lo scooter metto il casco, prima non lo facevo. Ma alla sera allo scooter preferisco l’auto, meglio se quella degli altri.
Ho cominciato ad uscire con gente diversa, uomini di culture dissimili, con automobili nuove di zecca, mogli inconsapevoli che nel cuore o tra le mani dei loro uomini ci sono io. Qualche sera fa sono uscita con un medico, un uomo tremendamente noioso che quando mi porta a cena fuori dice che sto zitta, che guardo a terra. Mi dà dell’autistica e ride bonariamente, io gli do corda ma dentro lo maledico. Non riusciamo proprio ad essere complici, a fare i fidanzatini anche per una sera soltanto. A letto mi trasformo in una iena, dice. Divento quasi rabbiosa, scarico sul suo corpo istinti e pulsioni che sono dentro di me da troppo tempo. Ma la cosa non gli dispiace, precisa sempre. E allora la notte cerco di arrabbiarmi, di chiudere gli occhi e buttarmi sopra di lui. Posso farcela, mi ripeto.
Non tengo la mano a nessuno, al massimo cammino a braccetto sentendomi una signora inglese con un tailleur che per poco non mi soffoca. Mi faccio lo chignon il sabato sera, se non sono di fretta mi metto il rossetto oppure collane che con te non ho messo mai.
Le amicizie… Chi la sente più, Giada? Mi ha telefonato per diverso tempo ed io sono stata bravissima a scansare le sue telefonate, i colpi di clacson a mezzanotte per andare a prendere una piadina al Chioschetto, le citofonate (io ogni volta a far dire a mia mamma che ero sotto la doccia, che non c’ero, che facevo tirocinio). Adesso mi vedo con un gruppo di ragazze tutto sommato simpatiche, usciamo per l’aperitivo in piazza Vittorio, per un caffè da Baratti&Milano. Parliamo di portafogli in pelle, libri difficili, mostre di quadri, sigarette elettroniche, Facebook. Non posso dire che mi diverta granché ma perlomeno mi passo il tempo.
Perlomeno non ti penso.
Sono mesi che non ti incrocio in centro, che non frequento più i locali in cui andavamo sempre insieme. Non ricordo più la tua schiena bianca, i nei che uniti formavano un triangolo sul tuo braccio, i riccioli d’angelo, la voglia di fragola sulla coscia sinistra. Eppure ne sento la mancanza, a volte sono assenze che diventano dolori insopportabili. Quando mi specchio in qualche vetrina mi invento la tua figura vicino ed ogni volta è un colpo al cuore, perché so che prima o poi capiterà ma non me l’aspetto mai, di immaginarti a tal punto da riuscire a vedere la tua mano sulla mia. Siamo separati da una linea invisibile, dalla mia incapacità di saper afferrare come si deve una mano, dalla paura di provare a farlo. E così appoggi la tua sulla mia, mi accarezzi piano piano le dita e le unghie smaltate. Io ti lascio fare, zitta, mentre sorrido come una bambina.
Poi penso che forse in quei momenti le tue mani sfiorano altre, che gli occhi sono poggiati sul seno di una donna, che la bocca scava il corpo di Maddalena, quella stronza che fino all’ultimo ci ha provato con te, quella che sapeva che eravamo fidanzati e che magari alla fine ce l’ha fatta. Ad averti, a farsi amare, a prendersi la rivincita dopo tutte le mie vittorie. Le nostre vittorie.
Ed è un attimo, un attimo minuscolo: mi si sgretola dentro qualcosa, forse è l’orgoglio, il punto che ho messo alla nostra storia, tutto quel ghiaccio attorno al cuore.
Avverto l’urgenza delle lacrime, dello sfogo, di stare comoda senza tutte queste stronzate addosso e subito ritorno la Signora Dalloway: organizzo feste in casa mia, i fiori freschi sul tavolo diventano le mie premure, il caviale e lo champagne le mie spese. Tu ti fai piccolo piccolo nella mia mente, ti acquatti nella mia memoria e spero non verrai fuori più, perché sennò mi complicheresti solo le cose.
Il quattordici gennaio ricevo un invito ad una mostra. Mi invita il dottore, vuole presentarmi ai suoi amici, ci sarà sua moglie e lo ecciterà sfiorarmi le spalle senza che lei lo veda, baciarmi la mano fingendo di conoscermi per la prima volta. Qualcosa mi turba. Non è la moglie, la scelta dell’abito, il tacco di questi stivali su cui non sono abituata a stare. E’ quella sensazione sgradevole che preannuncia un crollo, una voce – la tua – che mi invita a…non lo so, mi concentro, mi sforzo a sentirti meglio ma scompare tutto: la voce, il triste presagio.
Alle cinque del pomeriggio sono davanti alla Palazzina. Raggiungo l’entrata, cerco di capire dove sia il dottore, di chi sia questa mostra. Poi leggo un manifesto e penso: no, non può essere.
Degas. Capolavori dal Musée d’Orsay.
La Famiglia Bellelli che ti piaceva troppo, che dicevi prima o poi avresti rubato, “non so come ma quel quadro diventerà mio, te lo giuro”. Io t’ascoltavo, t’ascoltavo, t’ascoltavo mentre mi parlavi dei cavalli, delle ballerine. Sopprimevo gli sbadigli, mi dicevo che una volta che te ne fossi andato di casa mi sarei studiata tutto Degas.
“Eccola qui, la mia Virginia.”
E’ il dottore, quella Virginia sono io, è la mia passione sfrenata per la Woolf ed il modernismo.
Proprio come da copione mi bacia la mano non appena la moglie lo raggiunge: si finge sorpreso, all’improvviso divento una sua paziente. Tra me e la donna c’è un cenno impercettibile, siamo quattro occhi di vetro e null’altro.
Poi lei s’assenta, raggiunge le amiche, un trio di signore con la pelliccia e dei calici in mano. Rimaniamo io e lui, il mio abito lungo che mi lascia la schiena scoperta e la sua mano che me l’accarezza. Il dottore mi sussurra qualcosa all’orecchio, forse sono lusinghe, o promesse, ed io mi sento stanca, estranea a tutto questo.
Se solo tu adesso entrassi in questa palazzina, se solo tu adesso mi chiamassi per nome facendomi girare, bloccando a mezz’aria questa viscida e vecchia mano – se solo tu mi dicessi “anche tu qui, non ci posso credere” giuro che mi salveresti.