I Grossmann e i Bulgakov sì, perché lo facevano di professione, avevano studiato per questo, io invece me lo devo guadagnare, anche perché sono maleducato, non ho studiato letteratura, non ho frequentato l’università, sono molto piatto sul discorso letterario. Ma un editor ha creduto in me e i lettori mi hanno appoggiato.
Nicolai Lilin ha 32 anni, alle spalle un passato denso, non sempre trasparente. Che non nasconde, anzi. Ne va fiero, ma senza vantarsene. La sua ascesa letteraria lui la descrive così, in un’intervista rilasciata a Rolling Stone. Una carriera fulminea, che in pochi anni l’ha portato all’apice del successo letterario, con il suo romanzo d’esordio, “Educazione siberiana” (2009), presto in testa a tutte le classifiche, e i successivi due romanzi, “Caduta libera” (2010) e “Il respiro del buio” (2011).
C’è chi ha parlato di una trovata pubblicitaria, chi lo considera un impostore. Chi addirittura sostiene che un russo che parla italiano da così pochi anni non avrebbe potuto scrivere testi grammaticalmente tanti corretti in una lingua non sua, e chi lo paragona a Roberto Saviano.
Nicolai non conferma né smentisce. Lui non ama definirsi scrittore, e neppure giornalista, sebbene abbia collaborato in Italia con alcuni giornali del gruppo l’Espresso. A distinguerlo da Saviano è la sua mancata politicizzazione. Nicolai non è italiano, con la politica del bunga bunga e delle marchette non ha e non vuole avere niente a che fare. Non si sente nemmeno autobiografo, anzi. I suoi libri sono romanzi, ci tiene a precisarlo. Anche se le storie raccontate sono tutte vere, la vita del Kolima di carta e inchiostro non deve necessariamente essere considerata la trasposizione letteraria della sua vita. Anche se a molti (anche lettori) piace pensarlo.
Certo è che Nicolai Lilin in Transnistria ci è nato e cresciuto davvero. Così come si è arruolato e ha combattuto nelle fila dell’esercito russo durante la guerra in Cecenia. Ha ucciso, e ha conosciuto la morte come conseguenza della vita. Il dolore e la paura. Ma è sopravvissuto. È un personaggio borderline, Nicolai Lilin, come la storia della terra e della società che racconta, storia al limite tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. Impossibile da giudicare.
In Italia Nicolai è approdato nel 2003, per raggiungere sua madre. Col padre, emigrato in Grecia, non aveva buoni rapporti. Così è arrivato da noi, e ha iniziato a lavorare come tatuatore a Cuneo. Si è fatto una famiglia, una moglie e una figlia. Ma il ricordo della Siberia continuava a bruciare. Di notte ha dato alla luce “Educazione siberiana”, terminato in soli quattro mesi. Un romanzo crudo e potente, scritto così come sarebbe stato detto a voce, un racconto orale riversato su carta, senza l’aggiunta di raffinatezze e belletti. Solo la forza della parola, e delle storie (tante, accumulate in anni e anni di assurda vita) che si concatenano una all’altra senza mai perdere di vista il filo conduttore, il fil rouge della narrazione. Impossibile non vedere stagliarsi in controluce, sotto la trama fitta e spessa delle vicende narrate, la figura dell’autore, il bandolo che tiene ben salda la matassa.
Un “criminale onesto”, come lui stesso ama definirsi. Figlio di una tradizione antica e ormai decaduta, in cui si delinque per necessità, non per piacere, Nicolai Lilin è ultimo esponente di un mondo permeato di valori universali, lealtà, fratellanza, rispetto delle gerarchie e del potere. Un mondo e una vita che è molto difficile raccontare a parole, e che meglio si spiega attraverso il tatuaggio, linguaggio figurativo in codice che tuttavia è più immediato perché, pur essendo da decifrare, non necessita della mediazione concettuale necessaria alla comprensione della parola, ma viaggia su altri canali. La pelle di chi si tatua e gli occhi di chi sa leggere ciò che è scritto nei segni.
E lui, Nicolai Lilin, la sua vita se la porta scritta addosso, accessibile solo a chi ancora appartiene a quel mondo misterioso, che nessun racconto riuscirà mai a svelare davvero.