Le auto parlavano, a Johnny. Anche quelle che avevano una certa età. Inconsapevoli di essere morte, sbattevano le palpebre piccole e grandi dei fari, agitando i tergicristalli rimasti intatti solo a poche, e aprendo gli sportelli, quando non era stato un brutto incidente a ucciderle, ma erano morte di abbandono in un campo, su una collina di rifiuti, davanti a una stazione. Come tutti, Johnny aveva le sue preferite. C’era una Ford Taunus gialla, che aveva visto tempi migliori, il cofano deformato e la grande griglia infranta. Dimostrava anche più degli anni che aveva. Ma non aveva perso colore, e quel giallo sporco era come una cifra di nobiltà. Johnny le parlava, l’accarezzava nelle serate fredde, le suonava un pezzo di Vasco che sembrava fatto per lei. Tra le cataste di lamiere già pressate era rimasto poco da distinguere. Una banda di metallo, una targa, pezzi di plastica colorata o di gomma nera. Così il ragazzo passava tra gli enormi tunnel di latta, ascoltando clacson che erano pianti, ritrovando frecce luminose come se dentro ci fosse ancora la vita di uno stabilimento e operai pieni di fatica e speranze. La Renault R4 prima serie invece di riposare in un museo era lì, da decenni, in attesa di chi la portasse via o le facesse raccontare della ruggine e del celeste sbiadito, della marmitta lasciata andare, e delle vicine, che strette in una verticale senza futuro, tenevano per sé in un silenzio lungo milioni di chilometri. E se alla Lancia Dedra SW mancavano portiere e ruote, della Fiat 500 un tempo bianca non restava nulla se non ruggine in forma d’auto e un poderoso quanto spoglio albero cresciuto dove un tempo erano stati i sedili. Le spoglie della Citroen stuprata dai ladri e poi lasciata a morire al freddo erano il segno che non sarebbe mai finita. Quelle creature di metallo che si pensava prive di cuore continuavano a essere usate, macellate, rubate e poi buttate via, batterie scariche, sedili carichi di ricordi, sportelli rigati di polvere, fuoco, olio, lacrime. Johnny aveva già il posto, e dopo aver trovato i soldi, dando via tutto quello che aveva dei vent’anni di lavoro da barista, recuperò decine e decine di auto, ma anche solo di carcasse o scheletri. Le mise a riposare tutte nel suo parco, poco oltre il confine. Prima era nient’altro che una discarica. Ora era un vero cimitero. A ogni auto un nome, la foto di chi le era appartenuta o di chi l’aveva progettata o costruita, insieme a oggetti sopravvissuti all’incidente e al tempo, a una foto di quando il cuore nel motore batteva forte e i paraluce abbassati mostravano tutta la vanità di teenagers Renault, belle donne Mercedes, simpatiche zie Fiat o attempate nonne Lancia. Ogni giorno Johnny aggiustava le piazzole, dove le belle macchine che altrove erano rottami, in quel posto della Svizzera potevano riposare acceleratore e freno e sognare un mondo di colline, sterrato e asfalto, piccoli paesi e bambini vocianti, ritrovandosi addosso la voglia di rimettere una chiave nel quadro, lasciare andare le ruote e far cantare il motore. Fosse anche solo un attimo, perché Johnny lo meritava, lui aveva saputo ascoltare i rombi nascosti tra i loro silenzi.