Conosciuto anche con lo pseudonimo di Merlin Cocai, nacque da famiglia di nobili origini, ma in decadimento. Battezzato come Gerolamo, divenne benedettino a Brescia nel 1508, assumendo il nome di Teofilo (=”amico di Dio”): questa scelta di prendere il saio era sovente praticata da case nobiliari che non avevano a disposizione grosse somme da spartire tra gli eredi. Dopo alcuni anni, perfezionò i propri studi di poesia a Padova. Ma cosa c’è di misterioso nella vita di questo personaggio sempre al limite tra sacro e profano, tra classicità e goliardia?
Il primo grosso punto interrogativo nasce quando, nel 1524 per ragioni tutt’oggi oscure, uscì dall’ordine per poi rientrarvi ben sei anni dopo, ma soltanto in seguito ad un intenso periodo di isolamento e romitaggio nei pressi di Ancona e della penisola sorrentina. I suoi viaggi però non si arrestarono qui: fu infatti inviato in Sicilia dal 1538 al 1542, si stabilì di ritorno in Veneto, dove morì nel 1544, a Bassano del Grappa.
Anche se fu autore di numerosi scritti sacri (L’umanità del figliuolo di Dio, Atto della Pinta), di un poema in volgare sulla fanciullezza dell’Orlando, l’Orlandino, dato alla stampa con lo pseudonimo “furfantesco” di Limerno Pitocco, e del Caos del Triperuno, Folengo è stato sempre conosciuto per la sua opera maccheronica: l’Opus maccaronicum o Maccheronee, di cui sono attestate quattro redazioni alquanto diverse tra loro (1517; 1521; 1539-40; 1552 postuma, con diverse note di compilatori).
Uno dei meriti più evidenti di Teofilo Folengo fu proprio quello di sdoganare il genere maccheronico dal puro esercizio goliardico, processo già attivo e ravvisabile nel periodo corrispondente alla fine del Quattrocento; grazie ai suoi contributi letterari, tuttavia, l’espressionismo e l’espressività linguistica derivanti dal sapiente mix tra sintassi e grammatica latina con lessico vernacolare, restituiscono un prodotto fresco ed originale, piacevole alla lettura immaginata, declamata in gruppo, con intento certamente anticonformistico e anticlassicistico, senza però sconfinare nel dissacrante.
da L’Orlandino
Magnanimo signor, se ‘n te le stelle
spiran cotante grazie largamente,
piovan piú tosto in me calde fritelle,
che seco i’ poscia ragionar col dente;
dammi ber e mangiar, se vòi piú belle
le rime mie; ch’io d’Elicon niente
mi curo, in fé di Dio; ché ‘l bere d’acque
(bea chi ber ne vòl!) sempre mi spiacque.
La società rinascimentale è presentata con strumenti e scenari assolutamente inediti, senza però che si rinunci ad una struttura letteraria di tutto rispetto: Le Maccheronee contengono diverse sezioni tematiche, quali la Zanitonella, incentrata su un amore rusticano; la Moscheide, poema eroicomico in 3 libri sulla guerra tra mosche e formiche (vi ricorda qualcosa?); e infine il Baldus, poema in 25 libri che narra le gesta di un discendente di Rinaldo. Quest’ultimo è generalmente considerato un saggio di interessante maestria, votato tutto alla costruzione di un mondo al contrario, in cui il genere agiografico è messo al servizio della narrazione della vita di uno scapestrato, con effetti se non del tutto inediti per la letteratura dell’epoca, quantomeno curiosi.
Il poema giocò un ruolo fondamentale nell’ispirazione di Rebelais per il suo Gargantua e Pantagruel.