Non sono napoletana.
La maggior parte delle persone che leggeranno questa frase la accetteranno come un dato di fatto: “costei non è di Napoli” dedurranno. Postilla logica: “Verrà da un qualunque altro paese”.
Anche i napoletani, leggendo, penseranno “costei non è di Napoli” ma la postilla seguente sarà “beata lei”. Oppure “poveretta lei”. O ancora le due insieme, nel più squisitamente contraddittorio spirito napoletano.
Ma – chiederà a questo punto il misero o fortunato lettore come me proveniente da un Altrove molto qualunque – cosa significa dunque essere napoletani?
Al fine di rispondere a questa solo in apparenza semplice domanda, caro lettore, dobbiamo affidarci alle cure di Francesco Durante, critico letterario, traduttore di John Fante e Bret Easton Ellis, giornalista, nonché autore di un gradevole saggio dal titolo illuminante: I napoletani.
Durante, la penna intinta nell’azzurrità del Golfo e nel grigiore dell’asfalto sconnesso di Barra, tratteggia con elegante prosa il ritratto dei suoi concittadini.
Professore, I napoletani costituiscono il seguito ideale di Scuorno, il suo libro apparso per Mondadori nel 2008?
In realtà questo libro è stato, per così dire, commissionato: fa parte di una collana della Neri Pozza dedicata alle identità locali, per la quale è già stato pubblicato I torinesi (di Osvaldo Guerrieri, ndr) e sono in uscita a breve ‘I siciliani’, ‘I milanesi’, ‘I romani’. Anche se quando si parla di questi argomenti bisogna essere molto cauti, perché sappiamo dove porta il discorso esasperato sulle identità locali, vere o presunte.
Ora, premesso che la nostra è un’identità ormai debole, perché facciamo tutti parte dello stesso teatro che non è neanche soltanto italiano, ma mondiale, è possibile rivolgersi ad un concetto di Napoli e della “napoletanità”, concetto sottoposto a stereotipi, a nozioni ricevute, insomma ad’un idea fissa della città, del suo carattere e del carattere dei suoi abitanti. Da un certo punto di vista, Napoli non è una città, ma un’idea di città: noi consideriamo ‘napoletane’ una serie di cose che a Napoli non ci sono più, ma che sopravvivono in considerazione di un presunto carattere locale. Questo si può notare per esempio quando in un gruppo di persone c’è un napoletano: tutti si aspettano che lui sia più brillante, più vivace e buffo, che sappia raccontare cose divertenti, magari anche cantare; e lui stesso cerca di non tradire le attese, perché i napoletani non si sottraggono a questa specie di “maledizione” della napoletanità, anzi la recitano continuamente.
E’ dunque qualcosa che vive più per una pretesa di esistenza, che per una questione di realtà; anche perché io sono personalmente convinto che il tratto fondamentale del carattere napoletano non sia la brillantezza, ma piuttosto la malinconia; ne è esempio conosciutissimo Eduardo De Filippo, la cui faccia è appunto una maschera malinconica. Tra i famosi umori che secondo la scienza medievale definivano l’uomo, ‘l’umor nero’ è proprio l’abito mentale del filosofo, che deve reggere il peso di una profonda nostalgia. Ecco, la malinconia di Napoli potrebbe essere nella nostalgia della bellezza, della giovinezza, nostalgia di qualcosa che si sa già che è destinato a perire, che fa parte del nostro cromosoma, perché sappiamo di trovarci in un luogo splendido, da tutti cantato nel mondo, ma sottoposto a torsioni tremende, dove la bellezza si distrugge ogni giorno. E ciò nonostante continua a resistere, perché sotto questa crosta, questa colata di cemento, sotto gli sfregi, l’immondizia, il disordine, questa bellezza continua indomita a farsi vedere.
Questo tema è stato trattato nella parte iniziale del libro, quella che lei ha definito la parte teorica; perché questa divisione?
Gli altri libri di questa collana hanno struttura diversa, e propongono una galleria di personaggi più o meno celebri, ma io ho preferito questa impostazione perché credo che il tono di un luogo come Napoli si definisca meglio attraverso la coralità e i personaggi minori, piuttosto che attraverso una serie di personalità eminenti.
Ma questo può esser dovuto anche al fatto che nessuna delle altre identità locali in Italia abbia una connotazione generale talmente forte da esser conosciuta e riconosciuta nel mondo intero?
Sicuramente sì, questo è un tratto molto particolare, ma ha anche ragioni storiche molto precise. Noi dimentichiamo il più delle volte che Napoli è stata per circa ottocento anni la capitale del più grande regno d’Italia. Fino agli inizi del XX secolo Napoli è stata la più popolosa città d’Italia, dunque la più attrattiva, la più labirintica, con la maggior profusione di cose degne di essere viste. Dopo Napoli, nel regno c’erano Lecce, Cosenza e L’Aquila: però qualsiasi “regnicolo” arrivasse dalla Puglia o dalla Calabria o dall’Abruzzo nella capitale diceva di sé di essere “napoletano”. Infatti moltissimi dei napoletani illustri in diversi campi, la musica, le arti, la letteratura, in realtà non sono napoletani in senso proprio. Napoli era la ‘nazione napolitana’ e ha mantenuto la caratteristica di polo di attrazione fino a che non ha ceduto il posto a Roma. La lunga memoria di questa centralità da capitale europea fa sì che Napoli conservi un’idea di sé come grande città attrattiva. Mozart in una lettera al padre racconta della sua decisione di recarvisi perché “con un’opera a Napoli ci si fa più onore e credito che non dando cento concerti in Germania”: tutto questo non si può dimenticare nel giro di un secolo, è un segno che rimane inciso profondamente nella mentalità degli abitanti.
Mi ha colpita il fatto che lei descriva Napoli come un perenne contrasto tra la città rivolta verso l’Europa e la città dei barbari, come la definisce Sergio De Santis. Lei pensa che effettivamente questo contrasto esista e che sia in qualche modo risolvibile?
Domenico Rea contrappone la rappresentazione della città reale a quella immaginata, un po’ consolatoria di certa drammaturgia borghese; infatti Rea non amava De Filippo preferendogli Raffaele Viviani, il suo contraltare popolare della drammaturgia napoletana del Novecento. Ci sono una Napoli immaginata, che è quella della pizza, del mandolino, delle canzoni d’amore, ed una Napoli reale, città dai forti contrasti, della miseria, della criminalità. L’opposizione tra la realtà e l’immagine blocca lo sviluppo di Napoli, come se ci fosse una consolazione di cui siamo tutti vittime, indipendentemente dall’appartenenza ad un ceto, per cui continuiamo a ripeterci: è vero, questo è un posto complicato, difficile da vivere, ma è bello, è divertente, e noi siamo più tolleranti, più gentili, più simpatici.
In realtà, questi ultimi cinquant’anni hanno confermato la presenza di due città reali all’interno di una città che è reale ed immaginata insieme, e quindi questa opposizione tra la Napoli dei garantiti, che hanno un lavoro ed una posizione sociale, e quelli che invece si devono arrabattare, gli emarginati, i periferici. E queste due città reali hanno sedimentato due diverse visioni del mondo. Nel mio libro ho esemplificato questo dualismo con la musica: la Napoli dei garantiti ascolta Pino Daniele, Eugenio Bennato, gli Alma Megretta; l’altra Napoli ama i cantanti neomelodici (che la Napoli opposta disprezza perché sono lo stigma di questo rotolare fuori dall’Europa) che sono migliaia e producono canzoni e video su argomenti terribili, come il boss della camorra che è una persona con problemi e troppe responsabilità e alla quale si deve rispetto. E’ una società che si riconosce nell’anti-Stato, che ha regole tutte sue.
Inoltre Napoli è una delle poche città ad avere la periferia in centro, perché quartieri come Forcella o i Quartieri Spagnoli o Torretta sono incistati nel centro della città, ma sono territori a parte in cui i vigili o la polizia non entrano volentieri, dove l’illegalità è la norma, dal livello più basso fino ai problemi più seri come lo spaccio. Ed il problema principale di Napoli è l’incapacità fino ad oggi di costruire ponti tra queste due realtà, uno spirito civico condiviso, l’idea che la città sia uno spazio comune che ha bisogno della cura di tutti. Nel libro definisco Gaetano Di Maio come un “uomo-ponte”, cioè uno straordinario esempio di connessione tra queste due realtà così polari, così opposte, che però hanno bisogno di stare assieme, di trovare un discorso comune, una narrazione (come si dice adesso) comune della città. Abbiamo ora un sindaco, De Magistris, ed una giunta, che sono espressione di un movimento nato dal basso e che quindi potrebbero avere le risorse, anche culturali, per intraprendere questa strada. Non è detto che ci riescano, però per una volta almeno le istanze della periferia dei giovani emarginati trovano una cassa di risonanza dentro il Comune.
Passando dall’area politica all’area letteraria, lei definisce Napoli come luogo di racconto e narrazione di se stessa e del mondo in generale. Come descrive il movimento letterario napoletano contemporaneo, visto che lei stesso afferma che mai come in questo periodo c’è stata un’enorme crescita di espressione scritta del luogo e del mondo, e che impatto pensa possano avere questi giovani scrittori sul futuro e sul cambiamento della città?
Ho un’idea in proposito: la letteratura e la narrativa in particolare si sono attestate con l’andare del tempo su un livello di ripetitività un pochino accademica, allontanandosi cioè dalla realtà. La letteratura corrente è stata per lungo tempo intimista, raccontava i dintorni dell’ombelico dello scrittore, ma questo era dato dal fatto che vivevamo in un mondo facile, in cui la vita scorreva senza grandi scossoni. A Napoli ora ci sono una serie di scrittori giovani, ma questa è una condizione che riguarda tutto il Sud: la Puglia fino a trent’anni fa era una regione senza scrittori. Oggi ci sono Mario Desiati, Nicola Lagioia, Alessandro Leogrande e tanti altri, e come dicevo questa moltiplicazione delle narrazioni riguarda tutto il Sud perché il Sud ha un sacco di cose da raccontare: la vita vera, la difficoltà della vita; il Mezzogiorno si trova nella condizione in cui si trovava l’America del grande romanzo del Novecento. L’America era una realtà di gente che aveva avuto una vita complicata, vittima di una crisi economica, senza lavoro, una realtà di estremo dinamismo, anche problematico. È ovvio che dove la realtà è più complessa, le cose da raccontare sono più numerose e soprattutto molto più interessanti: è quello che sta succedendo anche al Mezzogiorno d’Italia. Dove c’è un disagio, si nasconde un racconto.
Però, professore, nel Sud è storicamente esistita una lunghissima tradizione di studio accademico, non pensa che si corra il rischio di tornare ad una chiusura, a trovare rifugio nei libri come fuga della realtà?
La vita degli scrittori di oggi è molto diversa da quella dei loro predecessori dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, che si alzavano tardi la mattina, conducevano una vita perlopiù agiata e sedevano ai loro scrittoi avvolti in vesti da camera damascate e con la papalina in testa. Oggi di sola scrittura non si vive: la realtà odierna non è libresca, per cui bisogna agire sporcandosi le mani: scrivi un romanzo, ma poi collabori alla sceneggiatura di ‘Un posto al sole’, oppure scrivi qualcosa per il teatro… insomma, ti arrabatti, ti dai molto da fare, e in questo senso i nuovi scrittori del Sud possono essere una risorsa importante su uno scenario molto più ampio di quello che può essere rappresentato dal pubblico puramente letterario, che poi in Italia è un pubblico piuttosto limitato. Pensi a Roberto Saviano, il suo è un caso emblematico, perché il suo libro ‘Gomorra’ è diventato qualcosa d’altro, un appello ed uno stimolo alle coscienze. Quindi la letteratura nel Sud serve a metterci all’altezza del nostro passato, questione molto urgente perché noi non sfruttiamo minimamente la risorsa della storia che invece potrebbe essere la nostra principale risorsa. E quando parlo di storia non parlo solo di beni culturali, ma parlo di una magia della vita che qui si può ancora respirare, sia pure con difficoltà: il cibo, il paesaggio, certe solitudini dell’interno e invece certi brulicanti affollamenti della costa, il mare, la musica, tutto quello che negli anni ‘50 ed i primi anni ‘60 di questo Paese si chiamava ‘the magic of Italy’, poi definita come la ‘dolce vita’. Era il luogo questo dove si veniva per provare il brivido, l’idea dell’amore come passione travolgente, la bellezza semplice e ancora pura della conversazione, di una risata, di un bicchiere di vino.
Mi accorgo con questo di riecheggiare il filosofo pugliese Franco Cassano, con il suo pensiero meridiano alternativo rispetto all’idea tutta economicista dello sviluppo industriale del Sud; ma davvero penso che nel Sud l’idea della decrescita non sia così peregrina: noi potremmo trasformare i nostri presunti motivi di arretratezza in motivi di forza, ma non lo sappiano fare, proprio perché non siamo all’altezza di questa enorme idea culturale che comincia 3000 anni fa, con i filosofi della scuola eleatica o in Sicilia i poeti come Teocrito, e va avanti nel tempo, attraverso stagioni molto belle, molto nobili. E non è un’idea di separatezza, ma è un’idea di complemento molto bella, perché il mondo ha bisogno dello sviluppo, ma anche delle pause. Lo sviluppo industriale ad ogni costo è non solo un modello perdente, ma anche un’idea sbagliata anche perché il Mezzogiorno è eccentrico rispetto alle grandi correnti di traffico.
A Napoli abbiamo Bagnoli, nel golfo di Pozzuoli, uno dei paesaggi più meravigliosi della terra, e che cosa ci abbiamo costruito agli inizi del Novecento? Un’enorme acciaieria, l’ILVA, ora smantellata: il risultato è quest’area immensa di cui non sappiamo cosa fare. Se tu hai una risorsa culturale e se sai sfruttarla, la puoi trasformare in qualcosa che ti definisce anche in senso economico.
Un ultima domanda: lei è nato ad Anacapri. Rifarebbe la scelta di vivere a Napoli?
Sì. Lo avevo scritto in ‘Scuorno’: io fino a venticinque anni ho vissuto nel Nord, in Friuli, ho studiato all’Università di Padova; poi ho lavorato dieci anni a Milano. Tornavo a Capri ogni anno con mia madre, che decretava ogni anno la fine della scuola a maggio e mi portava giù per fare quelle bellissime vacanze di tre, quasi quattro mesi. Ma io vedevo Napoli come un luogo assolutamente respingente, cui guardavo con diffidenza, con occhi protoleghisti: arrivavo alla stazione centrale, prendevamo un tassì, percorrevamo via Marina, dove c’erano ancora i palazzi coi segni dei bombardamenti e le baracche, questa realtà tremenda che non mi piaceva per niente; arrivavamo al molo Beverello e ci si imbarcava. Ma quando la nave si allontanava, guardare Napoli da lì era vedere una grande bellezza.
Poi negli anni ‘80 mi è capitato di venire a lavorare qui chiamato dal direttore del Mattino, che aveva richiamato giovani giornalisti da tutta Italia, ma convinto che ci sarei restato poco tempo. Invece mi ci trovai meravigliosamente bene; sono stati gli anni più divertenti della mia vita, nonostante fossero gli anni successivi al terremoto, e anche gli anni in cui partiva Tangentopoli, ma noi eravamo troppo giovani perrendercene conto.
Però Napoli in quegli anni era un luogo fantastico, vi nasceva il miglior teatro della postavanguardia, Mario Martone, Toni Servillo, c’erano gruppi musicali nuovi, tra i quali un gruppo che si chiamava Frigo e cantava “Balli Mercalli”, una hit ispirata al terremoto; c’erano artisti locali come Mimmo Paladino, Nicola De Maria, Ernesto Tatafiore. Prosperava la Transavanguardia di Achille Bonito Oliva… c’era persino Andy Warhol. C’era una ricchezza culturale straordinaria, molto dinamica e anche molto confusa, inebriante, quasi. E quindi in quegli anni io “decisi” che ero napoletano, che questa era la mia città; ho cominciato a capirla, ad amarla.
Poi sono andato nuovamente via, ma questa volta portandola con me, come sempre succede: non so se lei ha mai visto le case dei napoletani a Milano, sono case nelle quali si trova invariabilmente una ‘gouache’ del ‘700 alle pareti. Il napoletano è un po’ come l’ebreo errante, si porta dietro il suo mondo, e anzi più lontano ne sta, più lo sente vicino (qui lo scrittore pare inconsapevolmente citare la famosa ‘Passione’ di Bovio, ndr), è qualcosa che ti segna nel profondo, che altre città che hanno perduto l’anima, tipo Milano, non sono in grado produrre. Pasolini aveva definito Napoli come luogo della non-omologazione che non implica un rifiuto della modernità, ma la possibilità di interpretare con i propri strumenti la modernità; in ‘Scuorno’ avevo citato l’esempio di un filosofo tedesco degli anni 20, Alfred Sohn-Rethel, che aveva scritto alcuni brevi saggi su Napoli che si intitolavano ‘La filosofia del rotto’: in uno di questi racconta che durante una passeggiata su via Chiaia aveva incontrato un lattaio che montava la panna usando il vecchio motore di un motoscafo, riparato peraltro in un modo tutto suo. Ed era rimasto incantato dall’idea che a Napoli la tecnica poteva essere sottratta al proprio destino deterministico, per cui un oggetto costruito per una stabilita funzione e solo per quella poteva essere distolto e diventare altro, e in questo vedeva la metafora di una capacità di adattarsi alla vita che contrastava in maniera stridente con la disciplina dei paesi del nord, dove si fanno le cose come si devono fare.
Ecco, qui a Napoli si fanno le stesse cose, ma non come si devono fare.