Non bastavano le imprese politiche e militari a fare di Giulio Cesare una delle figure più poliedriche, carismatiche e importanti di tutta la storia di Roma. In lui, forse più di ogni altro, si è identificata, con il passare dei secoli, la grandezza di una civiltà.
Cospicua, dunque, anche la sua attività in ambito letterario. E nel naufragio dell’opera cesariana, sono integralmente sopravvissute due opere storiche di enorme portata, tradizionalmente intitolate Commentarii de bello gallico e Commentarii de bello civili.
Noi puntiamo i riflettori sulla prima, pubblicata in vita dallo stesso Cesare tra il 51 e il 50 a.C. Narra la conquista di quella regione che i Romani chiamavano Gallia Narbonensis, corrispondente approssimativamente alla fascia costiera estesa tra le Alpi e i Pirenei (l’attuale Provenza).
I fatti dicono che l’alleanza tra Crasso, Cesare e Pompeo del 60 a. C. aveva permesso a Cesare di ottenere un comando straordinario di cinque anni sulla Gallia Cisalpina, a cui fu aggiunta in un secondo momento anche la Gallia Narbonese. La sottomissione, politica e culturale, della Gallia, si carica di una grande valenza storica: fissa i confini del dominio di Roma lungo il Reno e sancisce la divisione fra Galli (romanizzati) e Germani (le popolazioni celtiche, i barbari non romanizzati).
E Cesare è il primo ad evidenziare questa netta divisione. Il De bello gallico – o anche Bellum Gallicum – è un’opera estremamente lucida, nella quale l’autore narra la conquista di una regione importante, strategica dal punto di vista geografico e politico. E l’occhio del politico è ovunque: Cesare, da uomo dotato di grande intelligenza, sa che a Roma non tutti approvano l’impresa, sa che molti la ascrivono solo ad personale ambitio che non conosce limiti. E dimostra, così, la natura difensiva della guerra, condotta con lo scopo di proteggere lo Stato romano da possibili invasioni di popoli celtici provenienti dal Nord.
Ma non mancano gli excursus etnografici, le descrizioni di usi e costumi delle popolazioni nemiche. Soprattutto, non manca lo sforzo di identificarsi nelle ragioni delle popolazioni galliche, ed è, in realtà, uno sforzo minimo, veicolato dalla grande apertura di mentalità del generale romano. Celebre il discorso messo in bocca a Critognato, nobile della tribù degli Arverni, che incita alla resistenza gli abitanti di Alesia: da esso traspare potenza, energia, ammirazione della virtus barbara.
Sette sono i libri scritti da Cesare. Dopo la sua morte fu un suo luogotenente, Aulo Irzio, a completare l’opera con l’aggiunta del libro VIII, contenente eventi immediatamente successivi alla guerra, databili al 51 e al 50 a.C.