Incontriamo Antonio Menna, giornalista, collaboratore de Il Mattino, attivissimo blogger. La nuova era digitale, densa di mezzi, non sempre di significati, impone nuovi modi di fare cultura e di muovere le masse. Proprio da un post nato in internet prende il via l’idea del suo lavoro “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli”. In un momento storico in cui scarseggiano i modelli positivi, il self made man americano suscita adorazione e i sostenitori della Apple paiono membri d’una setta, chiusa a chi non venera il nuovo idolo, la Mela. Antonio Menna prova a chiedersi se davvero il talento sia la conditio necessaria e sufficiente per la realizzazione di un sogno. Coraggio e stereotipi si mescolano. Lavoro di denuncia sociale o abile modo di sfruttare un “argomento caldo”? Proviamo a chiederglielo.
Con il post che hai scritto sul tuo blog, hai ricevuto 500.000 visualizzazioni ed hai suscitato addirittura l’interesse di Le Monde. Com’è nato, da quale esigenza?
Il post è nato dalla morte di Steve Jobs, l’ho pubblicato l’8 ottobre, lui è morto il 5. C’è stata quasi una sollevazione popolare, è stato rilanciato in rete il suo pensiero, e una delle cose di cui si è più parlato è quello che disse ai ragazzi dell’università di Stanford, li invitò ad essere “affamati e folli”. Intendeva dire che bisogna affrontare la vita con grinta, con determinazione, con personalità, perché se sei affamato, se sei folle puoi riuscire ad emergere. Io mi sono chiesto se fosse vero, cioè se davvero il segreto del successo, della realizzazione di sé fosse tutto legato alle qualità interiori, e se invece non siano le condizioni esterne a incidere sulla propria realizzazione. Per provare a rispondere a questo interrogativo ho deciso di collocare immaginariamente uno Steve Jobs, una persona grintosa e determinata oltre che di talento, in un contesto meno favorevole. Mi sono chiesto se uno Steve Jobs, invece di nascere in America negli anni ’50, fosse nato e cresciuto a Napoli, come sarebbe andata. Le avventure di questo personaggio sono state di sicuro meno positive di quelle dell’inventore di Apple, perché l’idea che un talento a Napoli punti esclusivamente su se stesso, è un’idea che non ha molta fortuna in questa realtà, che non aiuta chi vuole scommettere solo sulle proprie capacità, aiuta al contrario chi si inserisce dentro gruppi di potere, dentro le consorterie, chi ha le famiglie alle spalle, chi ha circuiti di amici. Infatti il mio personaggio immaginario, questo ventenne che sia nel libro che nel post si chiama Stefano Lavori, incontra una quantità infinita di vicissitudini.
Leggendo il libro si potrebbe quindi pensare che la determinazione valga zero rispetto al contesto di nascita. È questa l’idea che vuoi veicolare col libro?
No, non penso che la determinazione valga zero, è chiaro che le qualità interiori sono elementi fondamentali. Se non hai talento e grinta per scommetterci, fallisci in partenza. Quello che ho provato a dire è che non sono sufficienti, cioè l’idea secondo cui se tu vuoi ce la fai, è un’idea irrealistica, se vuoi hai possibilità di farcela, però perché tu ce la faccia davvero, è necessario anche che tu sia collocato in un contesto che sulla tua volontà faccia un investimento, la aiuti, la protegga. Ho reagito anche agli slogan che si sono sentiti negli ultimi anni: i fannulloni, i bamboccioni, ora gli sfigati. Sembra si vogliano ignorare i problemi della società, e scaricare tutta la colpa o il merito, della mancata realizzazione o della realizzazione, sulla persona. Io non penso le cose stiano così. Se una persona vale ce la può fare, ma perché ce la faccia c’è bisogno di un contesto che gli dia una mano.
Tu scegli di far nascere Stefano Lavori e Stefano Vozzini a Napoli, e li collochi in una zona particolare di Napoli, i Quartieri spagnoli. Gli stessi protagonisti sono intimiditi quando vanno a parlare con una commercialista a Via dei Mille, zona invece molto ricca della città. Allora andiamo ancora oltre, la determinazione è zero rispetto all’appoggio economico “di nascita”?
Uno degli ostacoli dei ragazzi è non avere i soldi. Io volevo dimostrare che senza appoggi intorno a te, da solo non ce la puoi fare. Il primo contesto è quello familiare. Il contesto familiare d’un ricco è d’aiuto rispetto a quello d’una famiglia modesta, e quindi ho dovuto collocare i due ragazzi in una famiglia che, oltre al calore, all’educazione, alla morale e alla protezione sentimentale, a questi ragazzi non poteva dare. Senza la protezione d’una famiglia potente, di uno Stato presente, di un sistema istituzionale a sostegno, il traguardo diventa impossibile. I fattori esterni sono determinanti per la riuscita, sempre che il talento ci sia ovviamente.
Pare di intravedere una Napoli, un’Italia, composta da sotto-città, un sistema quasi feudale. Il campanilismo, l’appartenenza, possono quindi rivelarsi negativi. Come si può emergere allora? Se la determinazione non basta, allora cosa serve?
Serve costruire condizioni esterne più favorevoli, cioè la differenza tra Steve Jobs ed i talenti italiani non è la qualità della persona. Io non credo che a Napoli non possa nascere uno Steve Jobs, anzi nascosti nelle case, anche dei quartieri più insospettabili, credo ci siano tanti talenti e personalità significative, creatività, belle teste ed anche belle anime. Il problema è che la differenza vera tra i Quartieri Spagnoli e la Silicon Valley, sono i fattori esterni alle persone. Si può cambiare agendo su questi fattori. Nel libro, scherzosamente, porto questi due ragazzi a fare una traversata nel deserto, cominciano dalle banche, poi i commercialisti, la burocrazia, la corruzione, la camorra, ogni stazione di questa via crucis è un problema da risolvere. Se ci coalizziamo per sciogliere questi nodi forse riusciamo a liberare delle energie.
Tu sei stato impegnato politicamente, assessore e consigliere a Marano di Napoli. Quali sono gli interventi che dovrebbe fare la politica?
Il vero problema qui è la gente, nel senso che la politica è conseguenza del corpo sociale e, a sua volta, lo influenza. Se non cresce la consapevolezza della gente, non migliora nemmeno la classe politica. Si dovrebbe cominciare con un’azione di sistema, culturale innanzitutto, per far crescere gli spazi della cittadinanza attiva. Avere gente più consapevole, che vota con più intelligenza, lucidità, e che sceglie una classe politica più lucida, che viene incalzata sulle soluzioni, e mette in moto un circuito positivo. Io posso testimoniare in qualche modo anche il mio fallimento personale, perché non è stato facile e sono uscito dalla politica con più fallimenti che successi, non necessariamente per colpa mia, però è oggettivo che qui le condizioni per chi vuole fare politica in un certo modo non ci sono e bisognerebbe crearle. Non saprei indicare una soluzione, se non quella di fare un lavoro culturale profondo, sulla testa e la coscienza della gente.
Tornando al libro, dunque i ragazzi sono nati in povertà, hanno talento e voglia di fare. Sembrerebbe uno stereotipo. Hai utilizzato uno stereotipo perché ti aiutava a descrivere la realtà o credi che sia la realtà ad essere fatta di stereotipi?
Se avessi voluto utilizzare una figura più stereotipata, avrei costruito due ragazzi più bulli, più furbi, più aggressivi. Invece ho costruito due figure di ventenni che non penseresti di trovare nei Quartieri Spagnoli, sono due ragazzi ingenui, puri, che hanno anche un forte senso di giustizia, che lottano, e credo proprio che quelle due figure siano poco stereotipate, siano abbastanza originali. Ce ne sono nella realtà, sepolte in quartieri difficili, penso di si, escono poco fuori, e credo che si dovrebbe raccontarle di più. Sono figure che fanno meno rumore. Gli scugnizzi fanno più colore, e noi tendiamo a credere che queste realtà siano piene di questi ultimi, io credo per testimonianza diretta che invece di figure positive ce ne siano, meno rumorose, che si nascondono. Forse dovremmo valorizzarle.
Nel libro non ci sono colpi di scena, non è una storia “originale”, potrebbe essere la storia di chiunque. Se ti dovessero muovere la critica che sia una storia banale, cosa risponderesti?
Risponderei che non sono d’accordo. Ho scritto una storia che non ha colpi di scena, perché è una storia di quotidianità, però non credo sia banale la realtà che ci circonda e che anzi vada raccontata nella sua crudezza. Sono molto più banali le storie che raccontano una Napoli oleografica, colorata, dove c’è la furbizia, dove di fronte all’ostacolo, si cerca sempre come aggirarlo, la cantata e la mangiata. Nel mio libro questi elementi non ci sono, ci sono degli stereotipi: il raccomandato, il direttore di banca che fa credito solo ai ricchi, il commercialista un po’ maneggione. Sono figure che esistono su cui fare una riflessione. Fare il loro ritratto, sottolineandone gli aspetti più grotteschi serve a dare al libro un abito di leggibilità, di godibilità, senza però trascurare il cuore, che è quello di segnalare i problemi.
Stefano Lavori, con la sua idea, crede di poter cambiare non solo il suo destino, ma anche quello di Napoli, attirando con la sua invenzione fenomenale, l’attenzione del mondo. Incontra degli ostacoli. Per l’avvio della sua attività lo Stato gli chiede quasi 3.000 euro, la camorra gliene chiede 1.000. Sembrerebbe più facile soddisfare le richieste della camorra che quello dello Stato.
I ragazzi si trovano esattamente in questa situazione. Quando la camorra chiede loro la tangente, hanno chiaro lo scenario: se accettano di pagare, la camorra gli permetterà di continuare la loro attività e di stare tranquilli, se non accettano si apre una guerra, e la camorra la fa con le sue armi che non sono certo delicate. Loro si trovano di fronte a questo dilemma, la cosa giusta è quella di non pagare e se ne rendono conto, però significa abbandonare l’attività, la cosa sbagliata è quella più facile. Faranno una scelta, che non svelo. Però trovo significativo che la strada più sbagliata è quella più semplice, spiega anche la facilità con cui ci si mette lungo certi percorsi. Noi dovremmo invertire tali parametri, rendendo difficili le strade sbagliate e facili quelle giuste. Una persona che si ritrova in una condizione per cui facendo la scelta giusta, ha più problemi, è una persona che può tendere a fare la cosa sbagliata. Ognuno di noi, per indole, cerca di semplificarsi la vita piuttosto che complicarsela. In questa città, se tu stabilisci una mediazione con la camorra, fai una vita più tranquilla di quella che faresti se invece decidessi di sfidarla. Si dovrebbe invertire questo paradigma, rendendo la vita difficile a chi con la camorra ci fa gli accordi, e facile a chi la camorra ha il coraggio di sfidarla.
Nel libro parli del fondo anti-racket, che risarcisce chi sfida la camorra solo dopo 2 anni. La società non aiuta chi non elemosina, ma chiede di poter sfruttare le sue potenzialità. Il governo Monti ha creato un nuovo tipo di S.r.l., che agevola chi non ha ancora compiuto 35 anni, trovi che sia un aiuto concreto?
Penso sia un piccolo passo significativo. Uno dei problemi che si segnalano nel libro, è proprio quello che i ragazzi che vogliono mettere su una ditta e che non hanno capitale iniziale, soldi da versare come quota sociale, soldi da spendere in statuto, atto costitutivo, spese di atto notarile, rinunciano perfino a cominciarla un’attività. Dandogli la possibilità di cominciarla con pochi soldi, pochi adempimenti, in maniera più fluida, dà l’opportunità a qualche talento di vedere se la sua idea funziona, oppure è solo un’illusione. Lo Stato deve semplificare e deve aiutare, non credo che fino ad oggi l’abbia fatto, anzi paradossalmente sembra che le istituzioni si siano ingegnate per rendere quanto più difficile possibile la vita a chi vuole cominciare un’attività.
Nel libro Stefano Lavori dice di preferire “l’illusione all’allusione”, l’illusione è una cosa irreale. È preferibile quindi credere all’irreale che alludere a quello che esiste?
Chiaramente non lo so, ognuno sceglie la sua strada, però la riflessione era questa: viviamo in una città che troppe volte si adatta, paradossalmente fa della sua capacità d’adattamento, della sua capacità d’arrangiarsi, un vessillo, una bandiera. Io non la considero una qualità. Se noi ci adattassimo di meno, e tenessimo più viva la fiamma ideale, riusciremmo meglio a produrre i cambiamenti. L’arte di arrangiarsi e di adattarsi ci ha fatto proprio abituare a vivere una vita col “pezzotto”, una vita di serie B, e chi sa se questo tipo di disincanto non sia proprio la chiave del ritardo in cui viviamo. Tutto sommato il cambiamento nasce dalla “spallata”, la spallata la dai se non ti fai bastare le cose, se non smetti di sperare. Questa è la teoria, il mio dato personale in realtà è molto più pessimistico.
Si potrebbe allora arrivare a ipotizzare che lo spirito d’adattamento, quasi un vanto per i napoletani, sia il problema di fondo. Ci adattiamo all’immondizia, alla camorra. Non è poi solo un atteggiamento partenopeo ma italiano in generale. Situazioni del genere altrove non sarebbero tollerate. Ci serve una rivoluzione?
Io non dico che tutti i problemi siano derivati dall’adattamento, ci sono delle condizioni politiche, istituzionali, la mancanza di un progetto nazionale per il Meridione. C’è stato anche un sistema di sfruttamento organizzato, però credo che ci sia anche una componente culturale nostra, che ci porta, fin dai tempi della dominazione storica, ad adattarci a come vanno le cose. “La rivoluzione” non vorrei fosse solo uno slogan. Ultimamente ne sentiamo parlare spesso, ma sono rivoluzioni solo nella testa di qualcuno. Ci vorrebbe una rivoluzione culturale, bisognerebbe modificare il nostro modo di essere cittadini, esigenti con noi e con la collettività. Non ci sono cambiamenti da un giorno all’altro, né rivoluzioni in 48 ore, scoppiano all’improvviso ma maturano negli anni.
Il tuo è un libro coraggioso, la camorra agisce in maniera forte contro i ragazzi, e denunci la situazione di staticità in cui si trovano. Scegli per il libro però una sorta di lieto fine. Lasci accesa una speranza. Questo è non aver voluto portare fino alla fine il pessimismo che pervade il libro o un omaggio alla dote dei napoletani di rinascere?
Non volevo scrivere un libro disperato, però nemmeno consolatorio. Volevo dire esattamente questo: i talenti ci sono, c’è anche il carattere e la determinazione, che però da soli non sono sufficienti. La speranza sono le persone, tutto sommato i due ragazzi protagonisti del libro per me sono una speranza, come sono una speranza le tante energie che in questa città, e in generale in Italia, ci sono. Questo è un libro che per 2/3 potrebbe essere ambientato ovunque in Italia. Il finale lascia aperta una speranza perché bisogna avere uno spazio su cui fare un investimento, se invece scrivi un libro disperato forse non ha nemmeno senso scriverlo. Qual è il senso di un messaggio di disperazione, se porti fuori una storia lo fai perché la storia possa produrre un risultato di miglioramento, di crescita.
La scelta di ambientarlo a Napoli deriva ovviamente dal tuo essere napoletano. Non è stata anche una scelta furba perché Napoli fa più notizia, più rumore?
Mi sarebbe riuscito difficile ambientare il libro a Belluno, o a Torino, perché io non ho conoscenza di quei luoghi, di quei territori, e quindi non posso certo descriverli. Può darsi sia stata una scelta furba. Però non avevo alternativa che ambientare la storia nel luogo che conosco di più. Non è stata una scelta strumentale ma di necessità, questa è una storia che si nutre di realtà, dove la fantasia è al servizio dell’attualità, quindi io dovevo prelevare dalla realtà elementi di cui avevo conoscenza diretta. È una storia italiana in ogni caso, a Napoli la camorra pesa di più, la burocrazia, le banche, il credito, la corruzione valgono per tutta la Nazione. Sono storie italiane.
Tornando al post su internet nasce una curiosità. Sei stato tu a contattare la casa editrice o viceversa?
Dopo il post, poiché avevo già scritto due romanzi e alcuni racconti, avevo piacere e voglia di scrivere. Il post era molto sintetico, scritto su internet in dieci minuti, ma mi sembrava ci potesse essere la traccia per una narrazione più lunga, quindi ho provato a tirare un progetto narrativo, e a proporlo in giro. Mi sono proposto io attraverso un agente letterario con il quale ero già in contatto, abbiamo visto se questa traccia di lavoro, con qualche capitolo già scritto, potesse trovare l’interesse di qualche editore. Devo dire che abbiamo trovato un buon interesse e lavorato in tempi molto stretti, era necessario fare un libro veloce, che stesse sull’onda dell’emozione ancora legata a Steve Jobs. Però credo il risultato sia stato buono.
La classifica dei libri più venduti ti vede più giù del libro della Parodi. Cosa segnala secondo te questo a livello culturale?
Al di là della classifica, c’è un dato: i libri più venduti sono fondamentalmente non-libri, sono improvvisati e si rivolgono ad un pubblico di non-lettori. Mentre i libri-libri, ovvero quelli che hanno una loro specificità, ma che non sono raccolte di temi generalmente esterni alla “letteratura”, non entrano in classifica. Tuttavia credo che anche i non-libri portino risorse all’industria del libro, e con quelle si possono stampare anche libri che hanno un valore più culturale e meno di mercato. Tutto sommato il sistema funziona. Non demonizzerei le pubblicazioni che hanno un carattere vario, perché riescono a mantenere un mercato che non avrebbe una grossa platea. La letteratura più impegnata, non è il caso del mio libro, è più selettiva, fa meno numeri e non avrebbe risorse a disposizione. Che poi i libri di “varia” portino in libreria lettori, che così possono acquistare anche altri libri, non credo sia vero.
Ultima domanda. Se Antonio Menna fosse nato in California?
Non lo so – ride – probabilmente sarei ancora più ingrassato. Sono stato lì un mese ingrassando dieci chili, perché non si riesce a mangiare niente di pulito. Difficile parlare del dato personale. Penso che ci sono luoghi dove è meglio nascere, e luoghi dove nascere è più penalizzante. Dovremmo ridurre queste distanze.