“Il bravo, vecchio Hank”.
Ultimamente mi capita spesso di pensare a lui.
Charles Bukowski è un po’ come un’ossessione, una volta che lo si conosce non si riesce a farne a meno. Un grande scrittore, questo si dice di lui. Un uomo capace di guardare al mondo col cinismo di un vecchio e contemporaneamente l’incanto di un bambino. Personalmente sono d’accordo, ma non fino in fondo. Chi era Charles Bukowski non lo sapremo mai. Probabilmente nemmeno lui lo sapeva. Nei suoi racconti, io ci ho trovato semplicemente un uomo disilluso, alcolizzato e molto solo, che nella scrittura riesce a rintracciare sprazzi di se stesso, tra una bevuta e l’altra, una donna e l’altra, una città e l’altra. Una vita sempre allo sbando, vissuta tra vittorie e sconfitte, letterarie e alle corse dei cavalli, tra l’ippodromo e sordide stanze affittate in discutibili motel, a caccia di una bottiglia o di una donna per farsi un po’ di compagnia.
Questo era Charles Bukowski. O, come preferiva essere chiamato, Hank.
Non Henry, nome scelto dai genitori e odiato; non Charles, preferito dagli editori e troppo pomposo. Hank. Immediato e comune. Semplice, come Bukowski sentiva in fondo di essere. Semplicemente un uomo, come ne esistono tanti sulla faccia della terra. Un fallito, figlio di immigrati in un paese intollerante e guerrafondaio, che tutto era fuorché l’America come la concepiamo oggi nella nostra gloriosa immaginazione occidentale. Un ubriacone, incapace di condurre una vita regolare. Un donnaiolo, pronto a passare di letto in letto, semplicemente alla ricerca di un’emozione, o forse di un po’ di calore.
Figlio di padre statunitense, ma di origini tedesche e polacche, e di madre tedesca, Heinrik Karl Bukowski nasce ad Andernach, Germania, durante il primo dopoguerra. A tre anni i genitori si trasferiscono negli States, prima a Baltimora, poi a Los Angeles. Qui Bukowski bambino incontra per la prima volta la discriminazione: preso in giro dai coetanei per l’accento straniero e l’abbigliamento bizzarro, troppo “europeo” nell’America della Grande Depressione, Bukowski cresce timido e scontroso, isolato e solitario fino all’adolescenza, quando i suoi rapporti coi pari vengono complicati da una grave forma d’acne, che lo rende ancora più insicuro.
È la scrittura a salvarlo: una valvola di sfogo in cui rovesciare indiscriminatamente tutto l’astio che sente nei confronti di un mondo che lo vede come un reietto. A 24 anni, dopo aver frequentato per due anni il L.A. City College, dove si spacciava per nazista per puro spirito di contraddizione, pubblica il suo primo racconto, Aftermath of a Lenghthy Rejection Ship (1944) sulla rivista Story; nello stesso anno viene arrestato per renitenza alla leva e trattenuto in carcere per 17 giorni. Due anni dopo pubblica un secondo racconto, 20 Tanks From Kasseldown. Ma sfondare nel mondo letterario è dura. Alla scrittura si sostituisce la bottiglia, compagna fedele di tutta la vita e fonte inesauribile di supporto, quello che Bukowski non riesce a trovare in un mondo ostile, troppo prorompente e violento, accecante nella sua bruttura, una lama negli occhi per uno sguardo tanto affinato e indagatore come il suo. Ma l’alcool sarà anche fonte perenne di ispirazione: dopo aver seriamente rischiato la morte per ulcera (1955) in seguito a una sbronza insieme alla compagna Jane Cooley Baker – primo e più importante amore della sua vita, anche lei alcolizzata, la sua morte lascerà profondi segni nell’animo dell’uomo e dello scrittore Bukowski – salvatosi per miracolo grazie all’odiato padre, che pure gli donò il sangue per le trasfusioni, Bukowski ricomincerà a scrivere. Soprattutto poesie, ma anche racconti. Traendo spunto da quegli anni oscuri della sua vita, trascorsi come “una sbronza di dieci anni”, una lunga notte di bevute, donne e vagabondaggi che Bukowski impiegherà tutta la sua vita – letteraria e non – a smaltire.
Licenziatosi dalle poste (1976), dove lavorò per quasi un decennio, per intraprendere la carriera di scrittore a tempo pieno, grazie alla fiducia – e al compenso di 100 dollari a settimana – offertagli dall’editore indipendente John Martin, Bukowski iniziò a fare davvero lo scrittore a 49 anni:
“Avevo solo due alternative – restare all’ufficio postale e impazzire… o andarmene e giocare a fare lo scrittore e morire di fame. Decisi di morire di fame”.
Fu il periodo più prolifico della sua carriera letteraria. Un mese dopo uscì Post-Office, suo primo romanzo (autobiografico). Seguì Storie di ordinaria follia, raccolta di racconti ispirati a quei dieci anni bui della sua esistenza. Poco tempo dopo conobbe Linda Lee Beighle, la donna che, come lui stesso affermò, gli regalerà dieci anni di vita, costringendolo a uno stile di vita meno sregolato, e che l’accompagnerà fino alla morte per leucemia (1994), sopraggiunta dopo una lotta durata sei anni contro la tubercolosi. Anni in cui Bukowski non smise mai di scrivere. Forse solo allora un po’ più fiducioso e meno disilluso, un uomo di mezza età che riesce ancora, o forse ci riesce per la prima volta, a sognare e sperare, come un bambino cui venga raccontata una bella favola. La favola della vita, che nonostante tutto non è mai sprecata fino in fondo, mai davvero insignificante, mai totalmente inutile. E “Hank” Bukowski, con l’eredità che ci ha lasciato, ne è l’esempio più lampante.