Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno dei miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo:
– Io mi chiamo Mattia Pascal.
– Grazie, caro. Questo lo so.
– E ti par poco?
Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza:
– Io mi chiamo Mattia Pascal.
È l’incipit di uno dei capolavori di Luigi Pirandello e merita ben poche presentazioni. Scritto nel 1903, pubblicato dapprima a puntate nel 1904 sulla “Nuova Antologia” e poi in volume, Il fu Mattia Pascal rappresenta in nuce la filosofia pirandelliana, condensando in una felice invenzione narrativa i grandi temi della riflessione dello scrittore di Agrigento: il contrasto tra realtà e apparenza, forma e vita, le maschere sociali, l’identità, l’inettitudine e la solitudine dell’uomo del Novecento, il relativismo pessimistico.
Mattia Pascal è l’uomo che vuole sfuggire al proprio triste destino, che vuole liberarsi dalle catene anguste delle costrizioni sociali. Vuole togliersi quella maledetta maschera che il mondo gli ha rifilato. E per farlo appofitta di uno scherzo del Destino: una morte scambiata, la notizia del suo decesso che in breve tempo si divulga, la possibilità di cambiare finalmente vita, di iniziare tutto da capo. Un altro volto, un’altra persona, un altro nome: Adriano Meis si illude che questo possa bastare per il proprio riscatto. Ma il Destino è beffardo. Senza documenti non puoi esistere, per la Legge non sei nessuno. Non si può scappare alla morsa della Società e della Maschera.
Tutte le persone che Mattia Pascal abbandona sembrano aver dimenticato in fretta. Ognuno procede per la sua strada. Quando il fallimento porta Adriano Meis di nuovo a casa, con la coda tra le gambe, scopre che la moglie si è risposata. Si ritira così nella polverosa biblioteca, nella quale lavorava in precedenza, e comincia a scrivere la sua storia, interrompendo di tanto in tanto quest’attività con una visita alla tomba dell’ignoto il cui corpo è stato scambiato per il suo. La tomba del “Fu Mattia Pascal“.
Qualche curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s’accompagna con me, sorride, e – considerando la mia condizione – mi domanda: “Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?”. Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo: “Eh, caro mio… Io sono il fu Mattia Pascal.”
È uno dei grandi romanzi del Novecento semplicemente perchè ha saputo interpretare in maniera magistrale lo scacco dell’uomo moderno, il suo essere solo pur in mezzo ad un mondo affollato, l’impossibilità di sfuggire alla propria sorte e di essere artefici del proprio destino. Destino che ci muove come marionette sul grande palcoscenico della vita. È, in ultima analisi, il trionfo e la dannazione del Relativismo, che pone l’uomo alla periferia del cosmo, lo fa sentire piccolo e insignificante. Maledetto sia Copernico.