In un momento storico, economico e sociale come questo, caratterizzato da una crisi economica che diventa il problema dei problemi ed una distorsione valoriale in cui si perde il senso dell’essere e compare quello dell’apparire – con la relativa risposta ad un bisogno di “dover essere” e non di “essere, semplicemente essere” – risulta utile e doveroso (nei confronti di chi, di noi stessi?, sì, forse sì) riflettere su ciò che oggigiorno si ricerca, per comprendere cosa fare e soprattutto cosa cerchiamo veramente.
I soldi. Ma sì, certo, i soldi. Ma i soldi perché? I soldi per cosa? Per vivere come vorremmo, per sentirci più potenti, per attorniarci da oggetti che vogliamo e soprattutto che sì, vogliamo, ma che non ci servono: telefonini, iPod, una seconda automobile, qualunque cosa sia di ultima generazione, “da urlo”, “assolutamente imperdibile”, “scontato del 50%, affrettatevi!”.
I soldi per comperare degli oggetti.
Ma siamo davvero sicuri che l’economia attuale si regga sugli oggetti? Oppure si regge su qualcos’altro, che non ha forma, solidità, consistenza, che non si può toccare, annusare, ascoltare, nemmeno pensare? Qualcosa a cui possiamo solo rispondere – e, anzi, qualcosa a cui noi rispondiamo come di riflesso, così, senza pensarci?
Liberarci dall’eccesso è forse possibile se riflettiamo su quello che facciamo al supermercato, se riflettiamo sulla vera ontologia delle cose (e se per “cose” si intende qualcosa di vago, inafferrabile, quasi fastidioso in quanto troppo generalizzante, con un riferimento che può essere di questo o di quello, non è perché, forse, ciò che noi chiamiamo oggetto – termine sì generico ma che indica già una qualche consistenza e solidità – in realtà non è che una semplice cosa? Ma per rispondere a questa domanda bisogna andare avanti con l’esposizione di un punto di vista chissà, magari condivisibile, magari nascosto alla mente dei più, magari privo di fondamento, dettato più dalle trite e ritrite nozioni generali di una sociologia dei consumi secondo le quali sappiamo benissimo che un oggetto – o meglio, una cosa – è sempre più marchio e sempre meno oggetto – inteso come qualunque cosa abbia estensione, solidità e possa venire acquistato.).
Ebbene, sì, eccoci, parlavamo del supermercato, di quello che facciamo quando ci aggiriamo tra gli scaffali, con in mano un carrello che spingiamo o un cestino della spesa che facciamo ondeggiare come fa il bambino sull’altalena. Perché infiliamo nel carrello tutta quella roba? Non eravamo entrati soltanto per gli spinaci surgelati e due o tre mele (siamo venuti a fare la spesa solo comprare due cose, davvero, nemmeno abbiamo scritto una lista!)? Da dove nasce, qual è l’origine del movimento dell’allungare il braccio, afferrare una confezione di tale prodotto e posarlo nel carrello? O anzi: che cos’è quel movimento?
E’ la risposta ad un nostro stimolo, il tendere verso qualcosa (ma verso cosa? l’oggetto-merce), quell’impulso che crede esista la realtà e quindi cerca di afferrarla, quando invece è proprio esso che la crea, la realtà, la realtà in quel momento e in quel posto – il supermercato.
Ecco che quindi noi allunghiamo il braccio e afferriamo qualcosa. Qualcosa che adesso per noi ha un’ontologia nuova. Qualcosa che adesso ha forma e solidità (le caratteristiche di qualunque oggetto), che sono le conseguenze dello stimolo e non la sua origine. E’ ovvio che gli oggetti esistano di per sé stessi e che quindi la realtà non nasca dal tocco dell’uomo – tocco inteso come risposta ad uno stimolo – ma se l’oggetto-merce nascesse da quello, se l’oggetto diventasse l’oggetto-merce solo dopo il nostro atto dell’afferrare (o anche solo toccare riuscendo a resistere all’impulso di prenderlo e metterlo nel carrello)? Se l’oggetto inteso come merce non fosse altro che una modificazione fisico-energetica, una “messa in scena” ben riuscita, dotata di un corpo fisico?
Non sarebbe assurdo pensare che quella che noi crediamo un’esperienza degli oggetti (toccare, annusare, afferrare) sia in realtà un aggirarsi tra fantasmi, copie, dissolvenze, e che al supermercato non si acquistino oggetti ma stimoli, immagini, colori, sensazioni, nomi, riferimenti, marchi da indossare, da mangiare, da consumare, a cui vengono collegati oggetti da intendere come “stimulacri”.
E se il passo dal considerare quindi il mercato non più come una compravendita di oggetti ma come una figura economica costituita da un insieme di “stimulacri” (stimoli che portano ad una tensione verso marchi collegati ad oggetti) e come figura “medica”, che come una sala di rianimazione tiene in vita il consumatore con stimoli continui senza i quali questi cesserebbe di essere tale è brevissimo, quello dal considerare l’acquisto di un oggetto-merce come una tensione dallo “stimulacro” al simulacro (un oggetto che non è “obiectum”, cioè ciò che mi sta davanti ma un’inconsistenza che sta alla fine dell’intenzione, un’immagine di un’intenzione) nemmeno si vede.
Ecco perché, io credo – o comunque si potrebbe credere -, spesso quando usciamo dal supermercato con un carrello stracolmo di borse di plastica avvertiamo quella sensazione di…pentimento (veramente quello che ho comprato mi serviva? Perché mi sembra di aver preso roba totalmente inutile?), qualcosa di sgradevole che ci fa rimuginare fino a quando non raggiungiamo la macchina al parcheggio. Perché abbiamo comprato un simulacro. Anzi, noi lo abbiamo solo pagato: è stato il nostro stimolo a comprarlo. E ora abbiamo in mano questo telefonino che, per carità, è anche bello, ha un sacco di funzionalità, ma non ne avevamo un vero bisogno, era semplicemente bello lì in esposizione, dietro la vetrina. Ma nel gesto dell’acquisto non c’è stata in noi traccia del passaggio di una realtà di un oggetto, c’è stata solo quella della tensione di un non-bisogno. E il nostro bel Samsung è stato oggetto-merce per ben poco (o “cosa”, rispondendo così alla domanda posta all’inizio di questa breve riflessione; “cosa” in quanto indeterminata, in quanto ponte tra due determinazioni, che sfugge da qualunque tipo di definizione talmente la sua esistenza è fuggevole), giusto per quei tre secondi in cui lo abbiamo preso e posato nel carrello, subito dopo che fosse stato stimolo e subito prima che diventasse simulacro.
E se il segreto di un acquisto consapevole, senza rimpianti e soprattutto in grado di non farci piangere sul portafogli vuoto di banconote ma colmo di scontrini stesse semplicemente nell’ascoltarci, nel riflettere su cosa vogliamo, su cosa ci serve, su cosa voglio e su cosa voglio ma potrei anche non comperare, finendo così con il posare nel carrello delle merci e non delle rappresentazioni di nostri stimoli, rendendo l’inessenziale non più essenziale – dando al nostro “tendere verso” un noema?