Natalia Levi Ginzburg descrive con ironia e distacco le sue cronache famigliari durante il fascismo parlando a malapena di se stessa. Questo succede nel 1963, quando Lessico Famigliare viene pubblicato da Einaudi in un momento in cui l’autrice era affermata e conosciuta. Segue, sempre con imperturbabilità, le vicende di casa dagli anni 20 agli anni 50, toccando tanti punti delicati della loro storia. Sono gli anni difficili della guerra ad essere raccontati dal punto di vista di una famiglia tenacemente antifascista (ed ebrea). Pure il tono è sempre allegro e comicheggiante, senza mai cadere nel superficiale. La Ginzburg vigila quotidianamente su genitori e fratelli come una spettatrice annoiata che poco sembra avere a che fare con le paturnie e i drammi che si consumano tra le mura di casa. Natalia osserva taciturna, si ritrova spesso accerchiata da personaggi interessanti ed intriganti a cui si affeziona pur non avendo mai parlato con loro. Li descrive in maniera particolareggiata, come se la loro vita le fosse in qualche modo appartenuta. Alcuni di loro sono celebri schegge di storia italiana come Turati, Rosselli, Olivetti, Balbo, Pavese. Unisce memorie storiche a memorie intime, soffermandosi affetuosamente ma con pacata ironia sul padre Giuseppe, la mamma Lidia, i fratelli in eterno disaccordo Paola, Gino, Alberto e Mario, la serva Natalina.
Ogni timore, mortificazione e privazione che ha posato un’ombra sulle vite della famiglia viene tralasciato o solo accennato. Come fosse qualcosa di scontato e poco avvincente al confronto con i battibecchi di tutti i giorni. Dietro tutte le conversazioni futili su pranzi da preparare, le sartine da ammirare e la prole in vacanza nelle diverse carceri d’Italia, ogni parola ha un preciso significato che mira a descrivere sempre al meglio i personaggi della famiglia. Lo scrivere leggero della Ginzburg entra nel vivo dell’intimità delle parole, nelle espressioni ed esclamazioni. Frasi e termini come «Sgarabazzi! Sbrodeghezzi!», «Che anima che sei!», «Ecco il nuovo astro nascente!», «Quel sempio» tornano durante la narrazione e si solidificano nella nostra mente anche quando il libro è terminato da tempo. Tutto il sentimento che la Ginzburg non ci dichiara apertamente è lì, in quelle parole e in quei termini pieni di lei e della sua famiglia.
Si assiste ad un vero e proprio salto temporale nella storia narrata che taglia non solo gli avvicendamenti della guerra ma anche l’avvicinamento a Leone Ginzburg. Anche della morte di quest’ultimo parlerà in seguito come di un fatto di cronaca, senza esprimere sentimenti amari e disperazioni. La Ginzburg si ricorda liceale in calzettoni e un paragrafo dopo è sposata, senza fronzoli romantici o spiegazioni d’ogni sorta. È chiara l’insistenza della scrittrice nel volersi eclissare dal palcoscenico da lei descritto. Paradossalmente in un libro interamente dedicato alla sua famiglia, veniamo a sapere di lei solo ciò che era già universalmente noto: di sé non racconta niente di più. Ritorna ancora sui fatti tragici del conflitto, dell’esilio, della nostalgia. Parla degli angoli d’Italia condivisi con Leone mentre vengono sballottati da una zona d’esilio all’altra. Racconta con precisione gli spostamenti e le vicissitudini dei fratelli, del padre, dei vicini. Natalia non dimentica nessuno della cornice della sua vita. Si confida mettendo sullo stesso piano i fatti enormi della Storia e quelli minimi della vita di sempre. Anche gli avvenimenti più umili vengono considerati da una prospettiva superiore, i suoi sentimenti e angosce infantili hanno saputo cogliere l’esatta immagine di coloro che vivevano e lottavano al suo fianco.