Un secolo di vita. Un secolo di pittura. Basterebbero queste parole per definire la straordinaria avventura di Tiziano Vecellio ma, nello stesso tempo, sarebbero riduttive.
A partire dalla data di nascita, oggetto di studio e di dibattito ancora oggi, tra chi ha voluto enfatizzare la sua longevità per farne un unicum nella storia dell’arte, anche alla luce delle dichiarazioni rese dall’artista stesso in alcune lettere. Come quella del 1571 a Filippo II di Spagna, figlio di Carlo V che tanto peso aveva avuto nella sua carriera, in cui, pur di ricevere i pagamenti spettanti per le sue “poesie”, come Tiziano definisce le sue opere, sottolinea le difficoltà dell’età che avanza, dichiarando di avere 95 anni. Si carica qualche anno in più sulle spalle, di certo per impietosire l’interlocutore ma anche, a detta di molti, come un vezzo, una vanità.
Tuttavia, opere e documenti alla mano, ecco che la data della sua nascita è collocabile quasi certamente negli anni indicati nel Dialogo della Pittura (1557) da Ludovico Dolce e ne Le Vite da Giogio Vasari (1568) che ne descrive le opere fino all’età di 76 anni. E se nel 1566, quando Vasari scrive, Tiziano aveva 76 anni allora era nato nel 1490. Morirà nel 1576, per la peste, alla rispettabile età di 86 anni. Questa correzione verso il basso, rispetto a chi lo vorrebbe ultracentenario, nulla toglie al suo talento né alla sua lunga carriera ma dice molto sul suo carattere e sull’immagine che Tiziano amava dare e ha dato di sé.
Cadorino per nascita, di tradizione notarile per famiglia, Tiziano riporta in laguna il carattere pratico e diffidente della gente di montagna. Attaccato al denaro, con il fratello, ad esempio, gestirà un commercio di legname che non abbandonerà mai nel corso della vita, forse perché gli assicurerà delle entrate anche quando quelle degli illustri committenti, a cui chiederà sempre cifre consistenti, faranno fatica ad arrivare.
Giunto a Venezia all’età di 9-10 anni, è prima a bottega da Sebastiano Zuccato, poi da Gentile Bellini e quindi da Giovanni Bellini. Non avrà buoni rapporti con nessuno. Non sarà portato per carattere né ad avere maestri né ad avere allievi. A Giovanni Bellini cercherà anche di “fare le scarpe” quando, a trent’anni, ostentando una certa sfacciataggine, chiederà per sé al Gran Consiglio della Serenissima la Senseria del Sale, incarico ricoperto in quel momento dal Bellini. Entra perfino in competizione col maestro Giorgione quando dipinge l’affresco al Fondaco dei Tedeschi (1508-1509), di cui resta un frammento e le incisioni settecentesche di Anton Maria Zanetti.
Pratico, scontroso, avido ma anche ambizioso, calcolatore. Tiziano non accetta di andare a Roma nel 1513 quando il Papa lo manda a chiamare tramite Pietro Bembo. Troppa concorrenza: ci sono Raffaello, Michelangelo e Sebastiano Luciani che, con il prestigioso incarico all’Ufficio del Piombo, che gli varrà il famoso soprannome, è il rappresentate più illustre della pittura veneta nella capitale in quegli anni. Tiziano capisce che Venezia è una piazza migliore e meno densa di talenti per lui in quel momento e andrà a Roma solo più avanti, nel 1545, quando, come suggerisce qualcuno, chiederà favori per lo scapestrato figlio Pomponio, che voleva avviare alla carriera ecclesiastiaca, o quando la concorrenza sarà venuta meno, per vecchiaia o morte sopravvenuta.
Ma il cadorino, dopo l’affresco del fondaco e quelli per la Basilica di Sant’Antonio a Padova (1511), ha già superato la pittura tonale e lirica di Giorgione per orientarsi verso un uso del colore vivo, energico e fortemente drammatico, quella maniera fatta di dense campiture di colore che, insieme al ritmo ascensionale, diventano la sua firma per il capolavoro della pala de L’Assunta (1516-1518), dipinta a 28 anni, per la Chiesa della Madonna dei Frari. Il dipinto suscita così tanta ammirazione da fargli ottenere l’incarico del vescovo di Pafo, Jacopo Pesaro, per la Pala Pesaro (1519-1526), in cui il tema della sacra conversazione è rinnovato in chiave politica nell’esaltazione delle glorie del committente, che aveva sconfitto i turchi guidando la flotta pontificia, mediante quei ritratti cosi realistici e caratterizzati che sono parte integrante dell’opera ma rientrano a pieno titolo nella ricca galleria del Tiziano ritrattitista che, a partire dal Ritratto d’uomo detto l’Ariosto (1508-1512), seguirà il percorso di tutta la sua vita, attraverso capolavori rappresentativi di oltre duecento tipi umani: dalle icone di bellezza femminile come La Bella (1536), alle avvententi madonne e sante come la Maria Maddalena Penitente di San Pietroburgo (1560-1565), agli uomini di potere.
Perché i ritratti, Tiziano lo comprende ben presto, sono lo strumento principale per veicolare e diffondere il suo talento, il biglietto da visita per entrare nel patriziato veneziano prima, nelle corti italiane poi, come quella di Federico Gonzaga a Milano (Ritratto di Federico Gonzaga, 1525) che lo presenta all’imperartore Carlo V, che lo farà Conte Palatino, Cavaliere dello Speron d’Oro e notaio, con tutta una serie di onorificenze e poteri, e di cui sarà artista e ritrattista ufficiale (Ritratto di Carlo V con il cane (1533), Ritratto di Carlo V a cavallo, 1548); ritratti a cui lavora lungamente, tanto da farsi spedire l’armatura dall’imperatore e trattenerla per mesi, pur di riprodurre con esattezza ogni particolare. Perché, Tiziano lo sa, il ritratto incarna l’indivisualismo dell’uomo del Rinascimento, è “l’epica dell’individuo” e che sia un mercante o un principe, il soggetto, la logica non cambia. Lui ritrae tutti con la stessa accuratezza e dovizia di particolari, cogliendone persino pensieri, timori, paure, presagi.
Tuttavia, la capacità di Tiziano di prendere contatti, proporsi e, come emerge dal ricco epistolario, scrivere, dialogare con disinvoltura coi potenti, oggi si direbbe “fare self marketing”, non deriva solo dalla sua originaria praticità e sfrontatezza ma anche dall’influenza di un’amicizia preziosa che avrà un certo peso nella sua vita privata e professionale, anche attraverso quella capacità di usare la parola per sostenere la fama, che mancava a Tiziano che non aveva avuto una formazione umanista; un’amicizia e un sodalizio così intensi da configurarsi come una sorta di sponsorizzazione ante litteram.
“Flagello dei principi” come lo definì Ludovico Ariosto o “segretario del mondo” come egli stesso si definì, Pietro Aretino si fa notare, a Roma, per le pasquinate, poesie satiriche che diventano il veicolo principale per propagandare le sue composizioni e che lo consacrano ad infido e temuto fustigatore della corte pontificia, nell’incarnazione dello spirito opposto a quello che voleva l’artista rinascimentale a servizio di un potente, sostituendo le lodi con l’adulazione, l’economio con il pettegolezzo e la calunnia, cose che, inevitabilmente, gli procurano una serie di inamicizie che lo coinvolgono prima in uno scandalo e poi ne fanno la vittima di un attentato.
Sono proprio questi eventi, insieme al sacco di Roma, a portare l’Aretino via dalla capitale, per giungere a Venezia nel 1527 insieme allo scultore e architetto Jacopo Sansovino. Diventano entrambi amici di Tiziano e Aretino ne diventa, in un certo senso, il lato sfacciato, dissacrante, adulatore, spreguidicato, amico in quella dolce vita, imbevuta di buon vivere e di cultura, che ha luogo nella grande casa-atelier di Tiziano al Biri Grande, a Cannaregio, dove si vivono “frammenti di felicità in un mondo tempestosissimo”, in cui la minaccia turca e quella luterana gettano ombre e paure sulla Venezia libera e bontempona. Dai contatti con Carlo V anche Aretino trae vantaggio: si schiera dalla sua parte contro il re di Francia, con cui prima pure aveva avuto buoni rapporti, e l’imperatore gli assegna una cospicua pensione annuale. Cavalcherà anche al suo fianco intrattenendolo in un lungo colloquio in occasione di un passaggio dell’imperatore in territorio veneto.
L’Aretino, quindi, non è solo l’autore dei Sonetti lussuriosi e dei Dubbi amorosi (1525) ma anche di commedie come la La cortigiana (1525) che rientrano a pieno titolo in quella licenziosità e giocosità nel descrivere e vivere la vita, anche nei suoi aspetti più proibiti, deteriori e corrotti ma anche di un ricco epistolario, quello delle Lettere (1538-1557), che offrono un affresco artistico-culturale-politico di un’epoca e di un uomo, tanto schietto quanto malevolo, tanto alto nel suo genio quanto misero in certe bassezze, capace di passare dalla sincera esposizione del proprio affetto e celebrazione del valore dell’arte e dell’amicizia, come fa ad esempio nelle lettere a Tiziano, alla denigrazione e all’insulto dietro compenso. Sarà, forse, per la rappresentazione fedele di tutti questi suoi aspetti che l’Aretino di lamenterà del ritratto che Tiziano gli farà (Ritratto di Pietro Aretino, 1548).
Pietro Aretino è anche autore di opere a carattere religioso come Vita di Maria Vergine (1539) o i Tre Libri de la Humanità di Cristo (1535) che, in un certo senso, costituiscono “la sceneggiatura” per alcuni dipinti di Tiziano, quelli in cui sembra abbracciare la posizione di molti artisti che, in quegli anni, si collocano in posizione intermedia, pacificatrice, rispetto al dibattito religioso in atto. Non è un caso che nell’Ecce Homo (1543) Pilato ha il volto dell’Aretino a sottolineare che non fu Pilato a decidere le sorti del Cristo ma rabbia cieca del popolo. Inevitabilmente l’opera sarà messa all’indice dei libri proibiti quando la tolleranza verso le posizioni più riformiste verrà meno con il Concilio di Trento.
E che dire del contatto col potere che porta sempre più Tiziano a cogliere quel “contemptus mundi”, quel turbamento interiore che riporta in pittura e che coglie anche Carlo V quando si ritirerà all’Escorial portando con sé un quadro del cadorino? O il Ritratto di Papa Paolo III con i nipoti Alessandro e Ottavio Farnese (1546) che resta incompiuto quando Tiziano si accorge di aver ritratto un vecchio tremante ed infastidito, con lo sguardo perso, tra il cardinale, attaccato alla poltrona, incarnazione della brama di potere e il nipote laico, tanto reverente quanto ambiguo, forse pronto al tradimento alla prima occasione? Perché proprio lì dove si esercita il potere, si giunge alla consapevolezza dell’impossibilità di esercitare quello stesso potere. Ed è qui che la pittura diventa consunzione, smembramento, quella “pittura infinita” com’è stata definita, de La punzione di Marsia (1570-76) in cui lo scorticamento, di cui è vittima il satiro, è scorticamento della materia pittorica. Fino ad arrivare all’ascesi mistica della Pietà (1576), dove Tiziano dipinge con le dita, facendone uno strumento pittorico. La materia si smembra quale metafora dello “smembramento interiore” come nel Cristo “che perde carne” o nel braccio della Deposizione (1559) che farà scuola, da Caravaggio a David.
Perché, se non è del tutto vero che Tiziano fu leader incontrastato della pittura a Venezia in quegli anni, è pur vero che “X’è Tician che tiene la bandera” .
Il più grande ritrattista di sempre, e non solo, incarna l’artista moderno che non resta legato ad una corte ma porta la sua pittura ovunque sia richiesta, così lungimirante ed innovativo da chiedere ed ottenere dalla Repubblica una sorta di copyright sulle incisioni tratte dai suoi dipinti. Artista di tale peso da chiudere il lungo ciclo di mostre che Roma ha dedicato alla pittura veneta, “il grande vecchio” dell’Autoritratto del Prado (1566) o, semplicemente, “Tiziano” (presso le Scuderie del Quirinale fino al 16 giugno).