Alcuni studiosi hanno definito la nostra una società multiculturale. Lo è davvero?
Se lo fosse, ci troveremmo di fronte ad una organizzazione sistematica delle varie minoranze presenti sul territorio, tutte egualmente rappresentate e rispettate, e non schiacciate dal modello dominante/vincente.
Se lo fosse, avremmo l’opportunità di partecipare attivamente e quotidianamente ai fenomeni di integrazione socio- culturale, attraverso iniziative che puntano sull’istruzione, sulla qualità del lavoro (anzitutto, sulla possibilità di un lavoro), su una politica seria di accoglienza sul territorio.
Se lo fosse, non assisteremmo alle imposizioni della religione cattolica, che predomina il sistema scolastico – che non è il solo, chiaramente – pilotando festività e imponendo una presenza (considerata) indispensabile come quella dell’insegnante di religione.
La verità è che, nonostante l’Italia sia un Paese che da tempo affronta i fenomeni di immigrazione/emigrazione e che dovrebbe, facendo parte della Comunità Europea, essere non dico emancipato sotto questo profilo ma perlomeno aperto ai cambiamenti necessari per risolvere alcune dinamiche problematiche, la realtà con cui dobbiamo confrontarci presenta non poche difficoltà.
Di fronte ad un continuo flusso di immigrazioni da parte soprattutto di extra – comunitari (caratterizzando, in particolar modo dagli anni ’70, la demografia italiana), abbiamo assistito alla formazione di una società multietnica che però non ha comportato l’integrazione sociale e culturale. Il conflitto tra culture, religioni, tradizioni a contatto “forzato” – perché provenienti da contesti geografici diversi – non ha visto nessun intervento specifico, non ha suggerito alcun riconoscimento delle differenze, che si traducesse in coesione sociale.
Eppure è proprio attraverso lo strumento culturale che si comincia qualsiasi percorso di integrazione, perché se il confine statale è rigido, quello culturale invece è fluido. Innanzitutto si dovrebbe garantire l’istruzione, perché gli immigrati devono avere l’opportunità di andare a scuola: la legge “Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine” prevede che le regioni promuovano appositi corsi di lingua e cultura italiana, e specifici insegnamenti integrativi nella lingua originale. Ma sono servizi effettivamente attivi? Esiste realmente una “solidarietà scolastica”?
A quale riscatto o emancipazione si può puntare se non vengono riconosciuti e rispettati i diritti fondamentali degli immigrati?
Soltanto attraverso la mediazione socio – culturale è possibile ricostruire un nuovo sistema di vita civile che non costituisca integrazione subalterna, bensì una prospettiva unitaria.
Non discriminare, ma raccontare e testimoniare è il compito che ancora una volta si impone la letteratura. Riportare le storie reali di alcuni migranti, le loro aspettative per il futuro e la loro vita quotidiana, è un passo per conoscere la situazione, non sempre alla portata di tutti.
Una testimonianza è offerta da Vittoria Jacobone, Giuseppe Moro, Fausta Scardigno, i quali hanno pubblicato, nel 2012, Storie disintegrate. Studio sul processo d’integrazione degli immigrati a Bari, nel quale la narrativa si intreccia agli studi sociali. Da questo studio emerge che è possibile costruire relazioni gratuite e non utilitaristiche sia all’interno del proprio nucleo etnico sia con la società con cui si progetta di restare.
Anche Paolo Cuttitta ha parlato di immigrazione nel suo Lo spettacolo del confine. Lampedusa tra produzione e messa in scena della frontiera, localizzandola nell’isola siciliana, da anni ormai triste scenario della cronaca nostrana, spartiacque reale e simbolico tra mondi diversi.
Gli approfondimenti abbondano, com’è scontato che sia quando si tratta di questioni “vicine” alla gente.
Ma l’attenzione non è mai abbastanza. Parlarne non è abbastanza. Non lo è perlomeno fino a quando la soluzione politica al problema sarà quella del respingimento incontrollato.