Maria de dolores, Maria incoronata, Maria trafitta da un viso tondo come la luna, così pieno d’insulsaggine da scoppiare.
Eppure anche oggi torna a pranzo, l’ha detto stamattina mentre dalla soglia bofonchiava il suo ciao rimasticato e vomitato fino alla sera quando è il turno della notte, la buona notte che non si nega neanche ai cani.
Non so dire cosa mi colpì mai di lui, forse la calma, la cherubica bonomia della voce melensa.
Mi parve un porto riparato da ogni tempesta, una festa di fine estate, quando i raggi declinano senza fare male.
Mi trasferii nel suo paese senza pensarci a lungo.
Io che amavo il mare mi abituai a vedere il monte.
Bello, per la verità, il più bel monte che dio abbia creato, azzurro e rosa o grigio e scuro a seconda dell’ora e la stagione.
Nacquero subito dei figli ed io guardai la vita con i loro occhi, mentre l’allegria e il buonumore erano logori come lo straccio di maglione che indosso anche fuori stagione.
Lo metto in casa e mi imbruttisco perché devo pagare.
Chi non sa scegliere deve scontare il fio.
Mi parla spesso, anche se sa che non ascolto mai, ma questo non è mai stato contemplato tra noi, il contratto prevedeva la presenza, nel bene e nel male, il corpo, insomma, quello che fa ombra e si muove nelle stanze silenziose cercando di farsi compagnia.
Dicono che anche suo padre e suo nonno fossero così, belli fuori, ma nulla ho saputo delle loro mogli, da esse sì avrei potuto imparare, perché questo lo so fare bene. Riesco persino ad imitare il fruscio delle foglie dell’albero d’ulivo nel cortile: sono piccole e modeste, tese a fare ombra ai chicchi scuri e lucidi .
Ogni tanto parto e vado al mare, a casa mia anche se non è più mia.
Ci abita mio fratello e la moglie rumena, più giovane di lui di vent’anni che quando ride le si vede la fame atavica e la voglia di riscossa che crede di aver pasciuto guadagnandosi il letto di mio fratello.
Quel che mi rode però è solo che in quella che era la mia camera ora ha fatto il gabinetto e guarda pure a mare , quel mare che io vedevo dal mio letto, la mattina appena aprivo la serranda delle ciglia.
In realtà ne percepivo il colore già prima, mentre mi districavo a malincuore dal cotone del sogno che mi avvolgeva in un non mai definito sopore foriero di illusioni. Mi dispiaceva separarmene come dalle bambole che avevo dovuto cedere a Graziana, la disgrazia di quella sorella nata quando mia madre era già in età avanzata e avariata .Ma nessuno ha colpa del mio malumore, nessuno ne ha colpa né ieri né oggi.
E’ che non so vivere, ecco, chi non sa scegliere non sa vivere, e si tratti di un foulard dai disegni improbabili e importabili acquistato dal marocchino sotto casa o dell’uomo con cui portare la croce, poco importa.
Ciò che importa è sempre e solo l’esito finale.
Ed eccomi seduta nel cesso che guarda a mare, non riesco neanche ad orinare senza pensare ,ed ogni goccia mi pare un insulto, sembra sappia anche lei.
Mi chiamano dal cortile, dobbiamo andare al mare, io, Bustianu ,mio fratello ,e Ana, la rumena.
Lei ride già, le basta sentire il motore della station wagon nera come un carro funebre, con i cuscini rossi e i pompon neri da postribolo vetero-sovietico.
Si solleva il prendisole fino alle cosce mentre Bustianu diventa strabico ed è un problema tenere la carreggiata già in cortile.
Mi attacco alla maniglia e tengo il braccio alzato, in equilibrio, mentre la macchina fa retromarcia travolgendo i vasetti dei gerani appena impiantati .
Ma Bustianu è di ottimo umore, quel fiore, quel fiore nato in landa straniera sollazza i suoi giorni e vieppiù le sue notti e niente può volere di più un uomo che, onorando la sua specie, ha un unico termometro.
Accende lo stereo e nell’abitacolo si diffonde un’allegra musica zigana che fa venire subito voglia di emigrare in Australia.
Guardo fuori del finestrino cercando un albero sufficientemente robusto, mentre Ana mi offre una gomma da masticare.
La prendo, è al sapore di clorofilla e per un attimo mi consente di respirare.
Lo faccio a piccoli sorsi sperando possa bastare fino ad arrivare a destinazione.
Una frenata improvvisa mi riporta alla realtà: la spiaggia.
Una polenta appena messa nel tagliere, gialla, fumante, affollata di sagome seminude e sudate, la gran parte distese bocconi a mostrare la parte migliore di sé, altre supine col viso rivolto ai raggi feroci per farsi mangiare fino all’ultimo neurone.
Ho subito voglia di scappare, ma la casupola è montata, ombrellone multicolor e sediette varie, asciugamani e zoccoli , creme e borsa-frigo ed io che non so se il mare sarà profondo abbastanza.
Mi sdraio e chiudo gli occhi e divento sorda: è l’unico modo per fuggire.