mi ha colpito la lettera aperta che hai pubblicato su letteratu.it. Spero che il sito apra dibattiti, proponga letture interessanti, aiuti a scoprire nuove voci. Ebbene, ho pensato che fosse giusto condividere con un così appassionato gruppo di lettori, critici e nuovi scrittori, un’esperienza di vita. Non sono in Italia mentre ti scrivo, però credo di non essere andato mai via da Martina Franca anche quando sono distante come adesso; ho lì il mio migliore amico, il mio barbiere, i miei genitori, la mia residenza, il mio medico curante, ma soprattutto i miei sogni. Credo di non essere mai andato via proprio perché ho il desiderio di continuare a vivere nel mio paese, perché lì ci sono le mie storie, ci sono i personaggi che mi ossessionano, e c’è la lingua (il dialetto martinese) che parlo quando sogno, quando impreco, quando sono triste e quando mi innamoro. è anche vero che vivo gran parte dell’anno a Roma dove lavoro in una casa editrice, in un settore che in questi anni è toccato non soltanto da una potente crisi economica, ma anche da una crisi di identità (esisteranno ancora i libri di carta tra dieci anni e dunque gli editori?). Però Roma e Martina sono molto più vicine di quanto si creda, si tratta di cinque ore di treno. Il tempo necessario per leggere un libro di poesie.
A presto,
Mario
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Ecco la lettera inviata a Mario Desiati:
Caro Mario,
succedono cose strane, a volte. Ad esempio, scoprire delle affinità – sottili, ma pur sempre affinità – con una persona che ci è del tutto estranea, come lo sono io per te. Quello che non sai, ma che io so, è che le nostre origini sono le stesse. La Puglia è dove siamo nati e cresciuti, seguendo vite diverse, sì, come succede a tutte le persone di questo mondo, ma entrambe a suon di libri. Certo, non avrò letto Kafka a 13 anni, ma mi restano ancora le letture di quel periodo, i primi amori (letterari e non) tra una Alcott e una Austen.
È la stessa Puglia a cui ci sentiamo attaccati visceralmente; è, come tu stesso hai detto, “un pezzo di anima”, una specie di attaccamento morboso; è il fatto di sentirsi talmente vicini a certi paesaggi, a certe storie, a certi odori, da concludere di non poter vivere da nessun’altra parte, e di fare una scelta coraggiosa, azzardata: quella di restare.
Ma si sa, con le cose che si amano si vive un rapporto sempre complicato, fatto di disagi, di rifiuti, di odio. Sì, anche di odio.
Forse è stato questo, probabilmente, ad averti spinto lontano dalla tua Martina Franca, da quella terra felice e sconsacrata dove hai voluto disegnare la storia di Veleno. Da quella Martina che “odora di camini, che è un caleidoscopio biancheggiante di trulli e lamie, che si trucca di calce e si riunisce nei caffè del Ringo tra una pasta alla crema e una granita alla mandorla“. Avrai voluto ‘disintossicarti’, come si fa dalle cose di cui non si può fare a meno, ma da cui si sente la necessità di prendere le distanze.
Le tue distanze sono quelle che separano il tarantino da Roma, dove hai scelto di vivere in maniera stabile. Così facendo, anche tu sei diventato sempre di più Francesco Rasoschi e sempre meno Veleno.
Hai lasciato alle tue spalle il fantasma del Siderurgico di Taranto, che non fa solo da tragico sfondo alle vicende dei tuoi personaggi, ma è un tassello che compromette le vite reali di parecchi individui. Nel momento cruciale dei controlli decisivi e dei numerosissimi indagati, cosa avrai pensato, leggendo le ultime notizie Ansa?
Aldilà delle solite frasi fatte, quelle che ogni studente universitario fuori sede ripete a se stesso e alla sua famiglia nel momento in cui decide di andare via dal proprio paese per trasferirsi al Nord, o all’estero, “perché qui non ci sono possibilità“, mi chiedo perché, come me, la possibilità tu non abbia provato a cercarla qui, nella tua, nella nostra Puglia. Il bello di realizzarsi nel posto a cui si sente di appartenere dev’essere gran cosa, credo. Forse avrò l’orgoglio di scoprirlo anch’io.
Certo, il destino che ti è stato riservato e che hai conquistato con accanimento e impegno, il ruolo che rivesti adesso e tutto l’iter che ti ci ha condotto, valgono probabilmente la rinuncia a cui ti sei sottoposto; non sei uno di quegli studenti di Foto di classe, che si allontanano per andare a vivere peggio. Ma mi manca ancora qualcosa.
Insomma, diciamolo. Ti sei sradicato – l’hai fatto con tutte le scusanti possibili? – ma sei volontariamente andato via da una parte di te stesso.
E se invece fossi rimasto?
Intanto, “u uagnon se n’asciot”.
Con affetto e stima,
Giovanna Nappi