Tambur battente scrivo suonando – duecento parole mi bastano appena –, portando il tempo col piede sinistro, la parola l’insegue e la rima lo sfiora.
Insisto e ripeto che la scrittura è un incastro di parole assestate a ritmo di basso: riflessioni sparute in vicoli bui, discussioni salaci su quello che vuoi, ogn’inezia, ogni fatto può essere detto, tenendo il tempo seguace col piede sinistro.
Il sound prende vita e ritrova un profilo, marcato d’inchiostro sembra quasi più vero. Le tinte più cupe, figlie del tetro, saranno toni sfioriti in un taglio di vetro. Ma la parola non muore, segue sempre quel tempo; decide il piede sinistro: tutto il resto è silenzio.
Continuo ancora, non mi posso fermare: l’istinto qui è sacro, il ritmo vitale. Parlo ancora di me, di me mentre scrivo, che se fermo la penna di sicuro non vivo. Mi lascio portare dalla corrente di sangue – acqua salata, forza vibrante – , che decide ogni cosa, dal titolo al punto, finché non mi accorgo d’essere giunto.
In quel momento preciso, quando ho quasi finito, sento ancora un tremore e mi fischia l’udito. Ecco il finale, d’effetto e deciso: il piede sinistro ha dettato, la mano destra lo ha inciso.