«Finito lo pseudo fair play della gara, dirò la mia sul merito dei libri. Ha vinto un libro profondamente mediocre, una copia di copia, un esempio prototipico di midcult residuale. Ha rischiato di far troppo bene anche un libro letterariamente inesistente, scritto con i piedi da uno scribacchino mestierante, senza un’idea, senza un’ombra di responsabilità dello stile, per dirla con Barthes».
Scriveva Vincenzo Ostuni, editor della casa editrice milanese Ponte alle Grazie, sul suo profilo Facebook; questo accadeva all’indomani della sconfitta al Premio Strega con il libro in gara dell’autore Emanuele Trevi, Qualcosa di scritto. Il secondo libro a cui fa riferimento nel suo pacato commento è quello di Gianrico Carofiglio, Il silenzio dell’onda, classificatosi terzo, e che Ostuni definisce (per iniziare) letterariamente inesistente. Bene, se Trevi ha scelto l’educata risposta del silenzio, Carofiglio ha scelto invece un’impetuosa causa civile con tanto di risarcimento danni.
Citato in giudizio dallo scrittore magistrato con un’ammenda da pagare di 50.000,00 euro, Vincenzo Ostuni ha dato il via ad una querelle durata settimane e che ha visto coinvolti polizia, magistratura, giornalismo e mondo della letteratura. Sono infatti scesi in piazza per schierarsi a favore del commentatore facebookiano anche molti nomi della scrittura e del giornalismo rivendicando il diritto di parola e di critica. Si dicono indignati, perché l’azione legale di Carofiglio rappresenta un intento intimidatorio verso tutti coloro che si occupano di letteratura nel nostro paese.
Qualcuno ha sottovoce proposto ad Ostuni delle scuse, Carofiglio non le ha chieste. E allora? Dopotutto com’è che si dice? Chiedere scusa è accettare l’accusa!
Come stiano le cose oggi è un mistero. Alcuni dicono che il senatore scrittore abbia gentilmente proposto all’editor dalla lingua lunga di dare quei 50 mila euro a diverse ONG. Lui lo farebbe.
Che si risolva o no questo caso giudiziario – letterario, resterà una sola certezza: la decapitazione della parola. Che fosse un’arma era chiaro, ne hanno scoperto pregi e difetti durante il periodo fascista e che fosse poi potente è stato dimostrato durante i moti del ’68. Ciò che non tutti sanno è che la parola è nata libera.
Rispondere ad una critica con una citazione in giudizio è come sparare a chi attacca con una spada, è come urlare a chi sussurra, è come decidere di vincere da vigliacchi. In questo caso la paura l’ha fatta da padrona, eppure la critica, positiva o negativa che sia, nasce da una valutazione. Accettarla significa rischiare di vincere o di perdere, ma in maniera leale. Come leali dovrebbero essere i giudizi, quelli super partes, quelli obiettivi, quelli dati da vincitore e da perdente; gli sfoghi personali lasciamoli ai non addetti ai lavori.
E invece no. Via alle cause, via alle offese. Dopotutto i quotidiani hanno poco di cui parlare. No, quelle sono le case editrici. Allora si ai titoli in prima pagina, ai girotondi (sono all’antica, i flashmob li lascio ai nuovi arrivati!), alle scuse, alle ammende, alle tante parole messe lì per riempire scaffali e casse.
La verità è che chi scrive e parla di letteratura non conosce querelle, né giudizi del caso, conosce le parole. Il resto è spettacolo, uno spettacolo che sta trovando spazio nella precarietà della cultura italiana.