In questi giorni ho riletto il libro di Corrado Stajano, Un eroe borghese.
Libro inchiesta, ma non solo. Un resoconto di dieci anni di storia italiana, anni terribili.
Stajano ci racconta la vita e l’avventura terrena dell’avvocato Giorgio Ambrosoli. Nel 1974 all’avvocato viene affidato il compito di liquidare in maniera coatta la Banca Privata Italiana. Fin qui niente di strano se non per il fatto che la banca appartiene a Michele Sindona.
Nel 1946 Sindona sbarca a Milano e si accredita come fiscalista. Ma ha in mente ben altro. Nel 1961 acquista la prima banca, la Banca Privata Italiana, e nel 1968 la Banca Unione. È solo l’inizio di un impero finanziario di ben più vaste dimensioni.
Da solo non ci sarebbe riuscito. Sindona era uno che sapeva come muoversi. In questa storia entrano in balla la mafia, lo IOR (banca vaticana), i servizi segreti, la P2, gli uomini politici, primo fra tutti l’onorevole Andreotti e il suo enturage.
L’avvocato Ambrosoli con l’aiuto di quattro uomini della guardia di finanza ricostruisce questa trama di intrecci e coperture, di soldi, davvero tanti, che spariscono e di contabilità fittizie.
Collabora con i giudici italiani Ovidio Urbisci e Guido Viola. Collabora con le autorità americane che vogliono capire dove Sindona ha preso il denaro necessario all’acquisto della Franklin National Bank.
A niente valgono promesse e minacce. Ambrosoli inchioda Sindona e per questo pagherà. L’11 luglio del 1979 un killer americano lo fredda con quattro colpi di pistola. Morte inutile, pura vendetta del finanziere dal momento che le sue relazioni erano già in mano ai giudici.
Ai funerali di Ambrosoli nessun personaggio delle istituzioni si fa vivo. Andreotti dichiara in un’intervista che l’avvocato la morte se l’era cercata.
Pochi mesi prima di morire, Pasolini scrive sul Corriere della Sera l’articolo Il processo in cui elenca i motivi per cui i dirigenti della Democrazia Cristiana dovrebbero essere giudicati da un tribunale. Tra questi indica “l’indegnità, il disprezzo per i cittadini, la manipolazione di denaro pubblico, l’intrallazzo con i banchieri, la connivenza con la mafia… le responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori)… e le responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza)”.
Trent’anni sono trascorsi da queste parole dure come sassi. Gli Italiani hanno appreso cose terribili. Mani pulite non è stata che il barlume di una speranza. Un intero sistema politico messo sotto accusa per corruzione. L’inizio di un cambiamento? Niente affatto.
La nostra classe politica ha appreso la lezione di Licio Gelli, capo venerabile della P2. Lui diceva che “bisognava cambiare affinché tutto restasse uguale”.
Si scopre che i partiti incamerano soldi pubblici senza la necessità di dover rendere conto del loro uso perché una legge perversa glielo consente, e lo scopriamo proprio quando si rende la vita difficile al paese colpito al cuore da una crisi economica paragonabile per gravità a quella del 1929.
Di chi la responsabilità? Facciamo un passo indietro.
Di quel mutamento antropologico di cui parlava Pasolini e di ciò che Andreotti diceva di Ambrosoli, di uno che la morte se l’è andata a cercare.
Il primo alludeva ad una omologazione comportamentale di una società volta a marcare più l’identità che la differenza, più la necessità del consumo che la solidarietà sociale, più l’arrivismo che la prassi della trasformazione, e il secondo il destino di chiunque esca dalle maglie compromissorie del potere mettendo al centro della propria azione pubblica l’etica (parola quanto mai obsoleta con i tempi che corrono).
Ambrosoli è stato in qualche modo un pioniere che ha aperto una via. Altri hanno seguito le sue orme e sono caduti per la difesa dello Stato. A costoro Andreotti direbbe le stesse cose, che la morte se la sono cercata. Ma se oggi si può ancora parlare di Democrazia o di Stato lo si deve proprio alle centinai di vittime che hanno scelto la retorica del dovere contro il lasciar campare.
È tempo di attendere i partiti al varco.
Se sapranno mettersi in gioco fino in fondo, hanno una possibilità di sopravvivere, altrimenti di loro non resterà alcun rimpianto.