Noi dentro Capaci, Capaci dentro di noi. I due crateri si scambiano. Quello sull’autostrada ci lascia detriti di argilla rossa e lamiere d’auto nello stomaco. In cambio, al tratto che da Punta Raisi conduce in città, cediamo la nostra voragine. Di solitudine. Vent’anni oggi, senza Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani. Abbiamo provato a riempire il buco nero e infinito della strage di mafia e di Stato, con il dolore, la rabbia, frammenti di verità, schegge di memoria. Abbiamo fatto presìdi e fatto partire navi cariche di ragazze e di ragazzi. Abbiamo deposto fiori e scritto biglietti sull’Albero Falcone, visto pessime fiction e buoni film, con lo stesso sguardo attento. Abbiamo pianto, abbiamo arato la mente per ricordare il nostro 23 maggio ’92, tutte le primavere successive. Abbiamo lottato, abbiamo votato, abbiamo persino sperato. Ma non siamo stati abbastanza capaci. Non siamo stati abbastanza, a Capaci. Poi, dopo qualche anno, non siamo più stati, e forse oggi, nemmeno più Stato. Argilla e lamiere sono ancora lì a domandare giustizia e presenza, e noi a sorprenderci a cercare fiori di prato e mattoni e vetro per coprire tutto. Quasi che vivere significasse rimuovere. Ecco, da oggi, per essere capaci, di riprendere a lottare, e scavare il tunnel di fuga alla verità reclusa, per dare senso al sangue versato e innocente delle bombe vigliacche, di Palermo e di Brindisi, dovremo tornare a confessarci incapaci, scendendo in Capaci, nelle viscere rosse, nel tormento del metallo, e da quell’inferno di sirene e polvere, risalire la china e dare la nostra risposta.