Nell’ultimo mese del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, mi piace parlare della situazione del capoluogo campano appena dopo l’annessione al Regno d’Italia. Ciò avvenne esattamente il 21 ottobre 1860 tramite un plebiscito. Come si legge in un editoriale de ‘Ilnuovosud.it’, stando alle cronache del tempo, a tale plebiscito vi partecipò soltanto il 19% degli aventi diritto, interi comuni si astennero dalle votazioni ed inoltre andarono a votare più volte stranieri, garibaldini, donne e fanciulli. Così come risulta poi dai documenti della Polizia del tempo, il voto fu controllato dalla camorra locale in quanto furono denunciati episodi di minacce e incidenti. Infine lo stesso ammiraglio inglese George Rodney Mundy, osservatore esterno dei fatti, scrisse nel suo diario che “Un plebiscito a suffragio universale regolato da tali formalità non può essere ritenuto veridica manifestazione dei reali sentimenti di un Paese”.
Così dunque nel 1860 il Regno delle due Sicilie entra a far parte del Regno d’Italia. Sfogliando le pagine del libro di Alfredo D’Ambrosio, ‘Storia di Napoli dalle origini ad oggi’, si legge che dunque “L’Italia meridionale si era messa con fiducia nelle mani del governo piemontese il quale avrebbe dovuto impegnarsi a fondo per garantirne la vita, ma quest’impegno mancò in pieno e procurò gravi disagi”. Il perché lo spiega chiaramente. “Il governo centrale assunse la direzione di tutti i poteri e la tiepida voce dei deputati meridionali non impedì che gli ordinamenti napoletani, validi a tutti gli effetti, fossero sostituiti dalle leggi del regno sardo o su quelle modellate”. E così furono colpite la Corte dei Conti, la Scuola, le Poste, la Stampa, la Zecca, l’Ordinamento giudiziario, gli Ordinamenti provinciali e comunali le cui amministrazioni furono poste alle dirette dipendenze di Torino. La conseguenza fu lo smantellamento di taluni uffici ormai divenuti inutili a causa del trasferimento dei poteri, ma soprattutto il licenziamento o la messa in riposo dei dipendenti che fino a quel momento avevano lavorato in tali istituti, senza la possibilità di ricoprire gli stessi incarichi nei nuovi uffici.
Napoli poi subì anche cali nel campo economico. Le poche industrie che c’erano, furono letteralmente paralizzate dalla concorrenza di quelle del Nord, le quali traevano vantaggi dal minor costo dei prodotti finiti. Ciò era possibile grazie alla più facile importazione delle materie prime dato il maggior sviluppo della rete viaria, la vicinanza con i paesi esportatori ed importatori ma soprattutto anche grazie al minor costo della mano d’opera a causa dell’impiego maggiore di donne e bambini che ricevevano una paga inferiore a quella degli uomini. Ma anche il traffico marittimo subì una flessione. Fu avvantaggiato il porto di Genova, seguirono aggravi fiscali e di conseguenza aumentò il prezzo dei generi alimentari di prima necessità. Ai soldati dell’esercito borbonico ormai disciolto inoltre, non fu dato nessun lavoro né fu dato loro un sostentamento. Molti di loro incominciarono a delinquere e tornò a rifiorire, subito dopo l’Unità, il fenomeno del brigantaggio.
Nel 1862 poi, ci fu lo smantellamento della Zecca, della Stamperia Nazionale, del Lotto, dell’Arsenale dei Cantieri di Castellammare, con il conseguente licenziamento del personale. “Anche strutturalmente Napoli aveva bisogno di rinnovazione e bonifica. […] La città era carente di fognature e di acquedotti, le strade avevano bisogno di essere allargate. […] La mancanza di una regolare rete fognaria rendeva le strade cittadine intransitabili nei giorni di pioggia perché si trasformavano in torrenti”. Sempre citando testualmente le pagine di D’ambrosio. “Nel 1871, con il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, Napoli venne abbandonata da una gran parte dell’aristocrazia e dell’alta borghesia e diminuì ancora il commercio, diminuì l’occupazione, diminuì la possibilità di vivere, crebbe solo il peso fiscale”.
Scriverà qualche anno più tardi Gaetano Salvemini.
Il Napoletano e la Sicilia erano ricchissimi di beni ecclesiastici, mal coltivati, è vero, ma i cui prodotti si consumavano localmente. La confisca di quelle terre, a favore delle finanze dell’Italia unificata, sottrasse al meridione un’enorme quantità di capitale, sotto forma di pagamenti immediati, all’atto della compera o di pagamenti annuali che si sono prodotti fino ai nostri giorni. La coltivazione è rimasta, in generale, allo stesso punto del 1860, per cui si afferma che la confisca dei beni ecclesiastici e quelli della ex dinastia borbonica, servì solo a mascherare una colossale indennità di guerra pagata dall’Italia meridionale all’Italia Unita.