Inadeguatezza. È la prima sensazione che avverto tutte le volte che i ragazzi della mia generazione (quelli che io considero post-caduta del muro) ascoltano, un po’ per noia o per tedio quotidiano, gli album rock degli anni ’60, tra cui Velvet Underground e Nico. In questo caso, l’inadeguatezza sembra essere frutto di una incomprensione dell’opera stessa, delle motivazioni che stanno dietro alla sua scrittura, di una cattiva interpretazione degli anni ’60, ma soprattutto di una febbricitante ricerca di un’identità che non trova riscontro con la società attuale. Identità che, in una società che ci ospita fin dalla nascita con tutte le sue storpiature, devianze e malattie, deve fare i conti, prima di essere tale, con domande che sembrano inchiodate nel nostro tessuto esistenziale: cosa sono?, chi sono?, cosa devo? Un’ontologia politico-esistenziale con un postulato di natura morale a garantire (a giustificare) le nostre azioni. Mi piace definire l’eredità degli anni ’60 con altri termini, ovvero il risultato di una saggezza pre-adolescenziale che svanisce, assieme ad una felicità del tutto infantile (perché appartenente solo all’infanzia), e che cede il suo posto ad un’ombra che attende il proprio corpo, un sogno che cerca di materializzarsi e che troverà, in un modo o in un altro, il proprio “corpo” solamente nell’età adulta, quando il “sogno” farà posto, finalmente, allo status che più gli corrisponde.
La stramaggioranza degli italiani repubblicani (mi riferisco alla maggior parte della gente che è nata dopo la proclamazione della Repubblica, e quella attuale che ha dovuto, coscientemente o meno, assistere allo sgretolamento della prima e alla nascita nefasta della seconda), legati da un filo invisibile, genetico e fisiologico, all’eredità culturale dei padri, li colloco in una fase permanente di adolescenza, come se quegli anni ’60, in realtà, cercando di essere il più immaginoso possibile, si siano continuamente ripetuti anche nei decenni successivi, con la differenza che quel tipo di “adolescenza italiana” non è stata del tutto elaborata. Di conseguenza, il lascito di un’adolescenza non superata, ovvero l’eredità che i padri adolescenti destinano ai propri figli non ancora adulti, e quella di vivere una maturità nevrotica: quell’impeto rivoluzionario che doveva rischiarare i cuori dei figli di quella generazione, illuminare l’ottenebrata coscienza borghese, si è mostrata, nel corso di queste lunghe decadi, come uno stato comatoso che non si è mai veramente risvegliato, un vaso che non vuole traboccare, una perenne, continua nenia che ci ha reso – noi figli di quei padri – svegli ma in una culla, a vivere il sogno di chi dorme.
Anni che inevitabilmente ci siamo portati dietro, sia nel bene che nel male – basta notare il proliferare incessante dei preservativi, della pornografia, degli aborti (la legalizzazione dell’omicidio, direbbe Pasolini); la perdita della posizione autorevole che le donne avevano nelle classi subalterne, e che la cultura femminista ha del tutto rigettato; l’informazione è arrivata a un livello così alto di saturazione che ha annichilito il pensiero critico; una sempre più evidente libertà sessuale che trova il suo contro-altare nell’ossessione, nello schiavismo continentale, nella patologia, nell’erotismo maniacale e compulsivo; una generazione che ha deciso di ereditare la ribellione dei padri ma che aspira a dei modelli che i loro stessi padri hanno combattuto, ovvero i modelli borghesi.
Cosa sono i modelli borghesi (o del consumismo egemone)? Sono quelli che riescono a materializzare l’idea in un oggetto: oggetti che scandiscono la nostra vita quotidiana, come internet, telefonino, indumenti, autoveicoli, televisione, radio, computer, droga, cibo, alcool, etc. La lotta contro i modelli borghesi, l’esasperante consumo di massa, era una lotta contro l’appiattimento delle coscienze, il conformismo consumistico. Lo slogan: più diritti, più consumatori.
Siamo tutti figli di un padre che abbiamo rifiutato, perché egli non è la borghesia. La lotta, oggi, è diventata un’endemica, proliferante, incessante imitazione della borghesia. Il ’68 aveva rimosso solo parzialmente il processo d’imitazione che negli italiani stava prendendo forma nei ‘70. Il figlio di quel proletario che andava ai cortei a manifestare, oggi ha un posto in banca. Il transfert si è compiuto, ma in due modi: da un parte, il padre (archetipo che sta ad indicare la famiglia, le origini, la memoria, l’etica del sacrificio e del lavoro, la responsabilità) riversa nel figlio ciò che lui non ha ottenuto, ovvero un vuoto, una vittoria che non è mai avvenuta (che alimenta in alcuni padri la transigenza, in altri la permissività), e intravede nel figlio ciò che lui non è mai stato; dall’altra parte, il figlio (archetipo anch’esso, che sta ad indicare le generazioni future che hanno in mano il progresso e il conseguimento dello sviluppo umano) rigetta questo vuoto e i fallimenti del padre (che intanto ha perso la propria autorità), sublima l’uccisione del padre con l’accettare ossequiosamente la borghesia e i suoi modelli, ma si culla in una condizione momentaneamente ordinaria, frutto del lavoro di chi l’ha preceduto e messo al mondo. In mezzo stanno i modelli borghesi, o del nuovo consumo: da un lato, trasforma in vuoto ciò che il padre ha eretto in tanti anni di lavoro e sacrificio; dall’altro, spinge il figlio a vedere questo vuoto come un suo fallimento, cioè come un fallimento del padre.
I valori della società consumistica stravolgono quelli che la maggior parte di noi hanno ereditato: il figlio che rifiuta il padre e i suoi valori è, al contempo, un figlio che rifiuta il substrato culturale e sociale dal quale proviene. La borghesia, distruggendo la cultura millenaria del padre proletario, ha persuaso il figlio ad essere come un borghese, senza però esserlo veramente. Questa nevrosi, questa mancata coincidenza tra aspirazione e destinazione, viene sopperita dall’ansia del consumo. Ansia perché essa non trova alcuna spiegazione se non nell’allontanarsi gradualmente e inconsapevolmente dal vero problema, la coscienza, la consapevolezza.
Il padre che ha dovuto sudare per costruire, con le sue stesse mani, la dimora per la sua famiglia, mattone su mattone, coi piedi nella calce e nel cemento e la pelle arsa dal sole, oggi deve continuare a sudare per soddisfare e assecondare sua figlia che desidera ardentemente un telefonino, un accessorio qualsiasi che fa tendenza. Una tendenza borghese perché controlla e organizza le masse. Essa, la figlia, è inoltre una consumatrice come un’altra, difficilmente confondibile, per niente eccezionale o particolare, in quanto solo la coscienza si distingue per davvero.
Perché non riscontro una vera coscienza nel gusto di una ragazzina privilegiata e che si considera indie solo perché ascolta i Velvet?
L’album, che mostra in copertina la famosa banana disegnata da Andy Warhol, venne composto da un gruppo di scalmanati musicisti che non hanno potuto, per necessità più esistenziale che culturale, adeguarsi ai costumi borghesi e al conformismo hippy imperante di quegli anni. L’opera, pubblicata nel ’67, ricca di crudeltà, ma caratterizzata al contempo da un forte tensione alla sincerità, amalgama alla perfezione arte e cultura, decadenza e introspezione, sesso e droga, rock d’avanguardia e pop.
I Velvet Underground non erano solo degli interpreti del mondo, ma anche dei grandi provocatori. La borghesia imperante di allora esigeva uno schiaffo in faccia, ed hanno servito alle sue orecchie ovattate storie di diseredati, spacciatori, eroinomani, prostitute in pelle ma venerate come delle dee, sadomasochismo, viaggi allucinanti, morte, sangue, ragazzine represse, violenza. Il mondo che i Velvet presentavano al pubblico attraverso la loro musica non era un capriccio, un vezzo bohemien dell’intellettualoide di turno, o di chi stava contro solo per moda. Il loro era un mondo capovolto, ovvero il mondo visto da un’altra angolatura, da un’altra prospettiva. Era il mondo non più degli hippy ma il mondo che mancava, che è sempre mancato alla coscienza piena di croste dell’alta borghesia. Soprattutto, era un mondo da salvare, una faccia del globo dimenticata da troppo tempo.
I Velvet, a differenza di tanti infimi sinistroidi, decisero di sacralizzare questo mondo sconosciuto col suono distorto delle chitarre. Essi, nel servire un mondo che non sembrava esistesse per il pubblico, hanno parlato di un mondo vero, nato da un mondo falso che è stato decriptato dall’artista. Lo sfregio, il taglio chirurgico che loro hanno operato al conformismo, è stato un gesto che trova la sua rarità, la sua eccezionalità, la sua bellezza, nel tentativo contro-culturale che loro stessi hanno operato: parlare di un mondo che non vi piace, che terrorizza, che fa paura, che distrugge le certezze, che mette a repentaglio la sicurezza del potere egemone. Art-rock, avanguardia e impegno civile trovarono la loro armonia.
Oggi, tutto ciò che i Velvet denunciarono attraverso la loro musica, è stato assorbito dai modelli borghesi: è stato, ad oltranza, metabolizzato dalla permissività del consumismo egemone, divenendo la nuova regola, il nuovo conformismo.
È diventata una regola la bambina, figlia di papà, etichettarsi come indie o alternative; è una regola drogarsi, prostituirsi, osannare il sesso facile; è una regola vedere una rock-star riempirsi i polmoni di crack ed esibirsi come una scimmia in un videoclip con donne avvenenti ma sempre col culo di fuori, o i suoi accoliti inseguirlo ai concerti come se fosse Gesù Cristo; è una regola abusare di alcool ed allucinogeni nelle discoteche, o fare sesso nei bagni notturni sempre affollati; è una regola il maschilismo nel cuore delle donne piuttosto che nella testa degli uomini; è una regola, per la mia generazione, soffrire il disincanto, il disamore e la solitudine.
L’esasperante conformismo del consumo fece centro quando, una notte d’estate, tutti strafatti, degli sconosciuti inserirono nel lettore Velvet Underground e Nico, le sue intramontabili canzoni, e non capirne il rivoluzionario significato.