Nato a Firenze in una calda estate del 1432 da una nobile famiglia impoverita, Luigi Pulci incarna, nella figura e nell’opera, un indirizzo letterario ben preciso della fiorente corte di Lorenzo il Magnifico: quello comico, giocoso, basato su un linguaggio “basso” e radicato nel mondo quotidiano. Pulci rappresenta in modo particolare questa corrente, opponendosi nettamente al composto platonismo di Marsilio Ficino – di gran voga all’epoca alla corte del Magnifico – e presentando se stesso come un personaggio burlesco, sempre pronto ad evidenziare gli aspetti deformi e grotteschi della realtà.
L’opera di maggior spessore, la massima prova del suo ingegno e il suo testamento per i posteri è un imponente poema epico di ventotto cantari, composto in ottave, ricco di elementi comici e satirici: è il Morgante, il cui titolo deriva dal gigante che occupa un ruolo considerevole nella sua trama narrativa. Un testo, quello dell’opera di Pulci, dalla complicata vicenda compositiva ed editoriale; risulta, di fatto, dall’unione di due parti separate: una prima (di ventitre cantari) scritta con tutta probabilità negli anni Sessanta del XV secolo e ultimata intorno al ’70, di cui una prima edizione a stampa esce nel 1478; ed una seconda, uscita nell’ 83 con il titolo di Morgante Maggiore e con l’aggiunta di una nuova parte costituita da cinque cantari.
Al centro della vicenda narrativa si ergono le gesta trionfali di Carlo Magno e dei suoi Paladini: un argomento chiaramente molto gettonato all’epoca, immagine del trionfo cristiano contro gli infedeli e palese metafora della battaglia – fisica ideologica e culturale – contro i Turchi musulmani, in un momento in cui l’Europa cristiana sentiva forte la minaccia dopo la caduta di Costantinopoli.
Ma i tratti distintivi del Morgante sono senza dubbio l’esasperazione, la sproporzione e la dismisura, caratteri che si manifestano in ogni circostanza e che sono supportati da una lingua deformata fino all’eccesso, in continua ebollizione, legata alla più verace tradizione popolare toscana e ricca di termini inconsueti. L’opera segue gli schemi narrativi tipici dei cantari, basati soprattutto sulla ripetizione di formule fisse che servono a chiamare in causa gli ascoltatori. Il mondo degli eventi è un continuum di gesti spettacolari e sorprendenti, legati da un filo conduttore narrativo che, posto in secondo piano, risulta addirittura confuso e incongruente, mentre i personaggi sono inquadrati in caselle ben precise, secondo stereotipi, quasi marionette: Gano è un traditore maniacale, Carlo Magno un vecchio in balìa del proprio potere, i Paladini (su tutti i cugini Orlando e Rinaldo) sono immagini di forza sovrumana e i nemici pagani campioni di brutalità.
E tutto sulla dismisura è basato del resto anche l’episodio più celebre del poema, l’incontro tra il gigante protagonista, Morgante, e il gigante-nano (cioè un gigante la cui crescita si è arrestata a metà) Margutte, che incarna la proiezione fantastica di una vita governata dal caso e dall’imprevedibile, immersa negli aspetti più oscuri dell’esistenza, estranea a ogni ordine e razionalità (aspetti, questi, che in parte anticipano il genere del romanzo picaresco). E in generale Pulci si compiace, con perverso divertimento, a descrivere un mondo estremamente violento con immagini legate al cibo, in cui tutto diventa commestibile.
Baciato inizialmente dal successo, il Morgante cede progressivamente il passo prima al platonismo di Ficino e poi all’umanesimo di Poliziano, più rispondenti alle ambizioni culturali di Lorenzo.