Siamo nella quinta cornice, quella in cui compiono il loro cammino di espiazione le anime degli avari e dei prodighi. Il canto precedente – il XX – si era concluso con un avvenimento che aveva colpito notevolmente Dante e Virgilio: un vero e proprio terremoto, a cui era seguito un coro cantato all’unanimità dalle anime.
La narrazione comincia proprio da qui. Dante, incuriosito più che mai dal perchè dell’avvenimento, riprende il cammino insieme alla sua guida, quando improvvisamente un’anima si rivolge a loro con l’augurio di pace. A rispondere è Virgilio, il quale spiega all’anima benaugurante che a lui non è concessa la beatitudine eterna e che ha il compito di condurre Dante, vivo, finchè gli sarà consentito; conclude, poi, domandando il motivo del terremoto e del canto.
La spiegazione è esaustiva e appaga la curiosità dei pellegrini: l’anima – la cui identità non è ancora svelata – spiega che nel Purgatorio non possono avvenire alterazioni atmosferiche, e lo stesso terremoto non è dovuto a cause fisiche. Il monte trema ogni qualvolta un’anima si sente monda dal peccato e si avvia a salire in Paradiso. Ma c’è di più: l’anima rivela di essere essa stessa la protagonista di quella liberazione che ha provocato il suddetto terremoto; il canto, invece, è dovuto alla gioia corale delle anime, che intonano il Gloria in excelsis Deo.
Ma ora è il momento di rivelare la propria identità. Alla richiesta esplicita di Virgilio, l’anima si svela: si tratta di Stazio, il poeta latino nato a Napoli (ma Dante lo fa tolosano, nativo cioè di Tolosa: un errore di confusione dovuto al fatto che, nel Medioevo, lo si confondeva con un Lucio Stazio Ursolo, nato appunto a Tolosa) nel I secolo dopo Cristo. Si presenta come un poeta, vissuto al tempo dell’imperatore Tito, autore della Tebaide – il poema epico in XII libri dedicato al ciclo tebano – e dell’Achilleide – il secondo poema che avrebbe dovuto comprendere tutta la leggenda di Achille, ma che rimase interrotto alla metà del secondo libro per la morte del poeta. Stazio dichiara quindi di essere debitore, per la sua poesia epica, nei confornti dell’Eneide, che per lui è stata mamma e nutrice; addirittura afferma che, per essere vissuto al tempo di Virgilio, sarebbe disposto a rimanere ancora un anno in Purgatorio.
Prende corpo a questo punto uno degli episodi più umani della Divina Commedia. Dante, appena sente queste parole, sorride, in un moto d’animo assolutamente spontaneo che il Poeta descrive con versi meravigliosi. Virgilio, con un cenno rapido degli occhi, invita il suo discepolo a tacere sulla sua identità. Ma il “danno” ormai è fatto: Dante ha il sorriso sul volto, e Stazio gli chiede il perchè di questa reazione. Imbarazzato, stretto dall’obbedienza al maestro da una parte e dalla domanda dell’anima dall’altra, Dante temporeggia, fin quando non arriva il via libera di Virgilio, che lo invita adesso a parlare senza paura:
Questi che guida in alto li occhi miei,
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
forte a cantar de li uomini e d’i dei
Dante neanche finisce di parlare, che Stazio si inginocchia ai piedi di Virgilio in atto di riverenza, dimenticando di essere un’ombra. Il cantore dell’Eneide subito lo ferma (Frate non far, chè tu se’ ombra e ombra vedi), e il canto si chiude con le parole di Stazio, il quale afferma che tanta è l’ammirazione, da avergli fatto dimenticare l’inconsistenza delle ombre.